Omicidio di Stato

Fanno più paura i conti o le minacce militari di Erdogan?

Fanno più paura i conti o le intemperanza militari del presidente turco  Erdogan?

Gli addetti ai lavori, gli analisti economici e militari sanno che le minacce e l’attivismo militare in Mediterraneo di Recep Tayyip Erdogan, sono ben poca cosa rispetto al reale pericolo che la Turchia rappresenta oggi per l’Europa.  Le banche europee hanno molto da perdere se la situazione dovesse mettersi male con il presidente turco, l’esposizione è tale da poter minacciare la stabilità del settore bancario continentale.

L’agenzia di rating Moody’s ha lanciato l’allarme, le difficoltà economiche, endogene al Paese, aggravate dalla crisi mondiale per gli effetti della pandemia, potrebbero diventare un serio problema per l’Occidente, che con qualche riluttanza pensa a sanzioni economiche contro Ankara per le ripetute violazioni dei diritti umani.

Si ripropone il solito dilemma: si possono barattare i diritti umani in cambio della stabilità del sistema finanziario?

L’Occidente, con tedeschi e francesi in prima linea, con qualche sussulto e con parole di sdegno, hanno condannato l’ennesimo attivista morto nelle carceri turche. Dopo Ibrahim Gokcek, 39 anni, morto dopo 323 giorni di sciopero della fame, Helin Bolek, 288 giorni a digiuno arrivata a pesare 33 chili e Mustafa Kocak, 297 giorni senza cibo in solidarietà con la band Group Yorum, entrambi non avevano neanche trent’anni, a perdere la vita nello stesso tragico modo

l’avvocato Ebru Timtik, spirata il 27 agosto, dopo 238 giorni di sofferenze e privazioni.

Dallo scorso gennaio aveva deciso di avviare la drammatica forma di protesta per rivendicare il diritto a un processo equo e per chiedere condizioni di detenzioni dignitose. La Timtik era stata condannata a più di 13 anni di carcere nel 2019.

Senza ricorrere alle scene di Fuga di mezzanotte, la pellicola del ’78 di Alan Parker che denunciava le condizioni delle carceri turche, è facile comprendere come le privazioni per lo sciopero della fame e le condizioni di vita nelle fatiscenti celle turche, abbiano piegato i corpi di queste giovani donne e uomini che hanno osato sfidare il Sultano, ma queste morti non hanno piegato la volontà di una parte della società turca di riportare il Paese sui binari pre Erdogan, che ambiva a far parte dell’EU a tutti gli effetti.

L’Occidente, la Comunità Europea in primis, l’America di Trump si è completamente disinteressata, ha la memoria corta e sta rifacendo gli stessi errori fatti con il dittatore iracheno Saddam. Usato per anni in funzione anti iraniana, scaricato quando diventò ingombrante e poco gestibile. Ma questa volta la partita non è così semplice.

Tra aiuti, sussidi e incentivi per bloccare i flussi dei profughi siriani, l’Europa da oltre vent’anni ha versato e continua a versare un fiume di denaro. Tra il 2002 e il 2006 l’EU ha spedito nelle casse turche 1,3 miliardi, diventati rapidamente 4,8 tra il 2007 e il 2013 e 4,5 miliardi tra il 2014 e il 2020. A questi poi vanno aggiunti i soldi per trattenere il flusso di profughi che, con sapiente maestria è stato aperto e chiuso per fare pressione e in base all’umore del momento e alle necessità politiche del presidente turco.

Un’enorme quantità di denaro, che doveva servire per adeguare il sistema paese a quello europeo, per rafforzare la democrazia e avvicinare il grande Paese a cavallo tra Europa e Asia agli standard richiesti per accedere al club europeo, hanno, invece, contribuito a rafforzare la politica ora aggressiva ora amichevole che il presidente Erdogan esercita nei confronti anche degli stessi alleati europei e della NATO.

I leader europei si sono infilati in un vicolo cieco: sospendere i finanziamenti provocherebbe una marea di profughi, oggi rinchiusi e mantenuti in campi che l’Europa preferisce non vedere. Continuare a foraggiare Erdogan, per non destabilizzare il Paese e non rischiare i miliardi di dollari che le banche europee hanno investito in Turchia, alimenta le aspirazioni nazionalistiche dell’ex sindaco di Istanbul. Intanto gli omicidi di stato tentano di piegare l’opposizione interna.

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