Un Matteo vale l’altro?

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Un caro amico mi fa notare come mi occupi solo e sempre dei misfatti di Salvini & Co. senza mai indignarmi, invece, per lo spettacolo che il governo, appena dimesso, ha dato di sé.

Tradizionalmente, tutti i governi che si sono succeduti, da Mani pulite in avanti, chi più o chi meno, hanno fatto rimpiangere, e non poche volte, quei governi che magari duravano solo pochi mesi o quelli che ti fanno ancora dire “si stava meglio quando si stava peggio”. Sì, è un giudizio sommario e un tantino superficiale, me ne rendo conto ma oggi la politica, che vive di immediato e facile consenso e insegue gli umori dell’elettorato, cambia idea e programmi in base ai sondaggi e per alcune forze politiche è diventato il loro modo naturale di fare politica e il giudizio non può che essere altrettanto affrettato e superficiale. I trend e i topic dei social dettano il programma politico, e l’obiettivo è rispondere agli umori dell’elettore per governare per un’intera legislatura. I governi di prima non riesco a valutarli, ero troppo giovane per le noiose tribune elettorali, gli unici momenti in cui i politici facevano finta di parlare alla gente ma per quanto male abbiano fatto, hanno comunque ricostruito un Paese, da agricolo a quinta economia mondiale. 

Oggi ci alterniamo da un Matteo all’altro, da un veto a una crisi balneare, senza capirne davvero le ragioni. Certo, non mancano i motivi per indignarsi per il triste teatrino del Conte due, che era figlio, guarda caso, del Conte uno, eletto da quelli del Vaffa day e di Roma ladrona, il cui capo è proprio quel Matteo balneare, del Papete, che poi decise, tra un ghiacciolo e un bagno, che il suo socio di governo doveva andare a casa, prescindendo anche dalle prerogative costituzionali del Presidente della Repubblica. Quell’altro Matteo – quello dello “stai sereno” -, invece,  con la stessa serafica sicumera invoca il futuro dei suoi figli – cuore di papà – e l’eventualità che questi possano un domani chiedergli conto delle sue azioni sul Recovery fund e su come è stato utilizzato, e per questo vuole mandare a casa Conte ma non la sua maggioranza, che potrebbero sostenere solo a determinate condizioni. Pronti a riappoggiare un altro Conte: il Conte ter. Non chiedetemi di più, faccio fatica a capire.

Anche il primo Matteo tira in ballo spesso la progenie, come quando, andando dai magistrati per il caso della nave Diciotti, disse che non sapeva cosa rispondere alla figlia che gli chiedeva perché andava davanti ai magistrati, lui che aveva fatto solo il suo dovere, aveva difeso i confini della patria. La minaccia era costituita da un centinaio di sfiniti naufraghi.

Ma perché, secondo il mio amico, è il Matteo del Papete che critico di più? 

La coerenza e l’onestà intellettuale, oltre alla storia politica che rappresenta, sono per me la cartina di tornasole di chi mi deve rappresentare, ed è difficile che possa sentirmi rappresentato da uno che per anni ha letteralmente sputato addosso a una parte del Paese, rei di essere fannulloni e parassiti, di essere ladroni, come la capitale in cui facilmente e velocemente si sono insediati. Di quella Roma ladrona hanno presto imparato linguaggio, modi e costumi, riuscendo a essere anche più bravi. C’è voluto poco, molto poco per calarsi perfettamente nei rituali della politica romana, e c’è voluto anche meno per cominciare a rubare, esattamente come quelli che li avevano preceduti. Nei giorni di Mani pulite, nel disperato tentativo di salvare il salvabile – poco – Craxi tentò di spiegare ai magistrati che non c’era nessuno senza peccato che poteva scagliare la prima pietra. Tutta la storia repubblicana del dopoguerra si poggia su un unico caposaldo: contrastare il blocco sovietico. E i comunisti erano aiutati da Mosca, e loro dovevano arrangiarsi come potevano, perché la politica costa e non sempre era possibile finanziare il contrasto antisovietico legalmente, e allora le tangenti erano la forma non legale ma accettata per salvare la libertà, la democrazia, per cui molti di loro avevano combattuto. Rubare per il partito aveva le sue attenuanti. 

La Lega Nord di Umberto Bossi capisce subito che rubare è anche forma di lotta politica: lottare contro quella Repubblica dalla quale affrancarsi, della quale non rispetta la bandiera – da usare come carta igienica – sbeffeggia la nazionale di calcio e il vilipendio sono doveri rivoluzionari. Non sono i soli, per la verità, in tutte le formazioni politiche troviamo dei “rivoluzionari” che a modo loro conduco la loro personale rivoluzione, ma i leghisti hanno una marcia in più, ce l’hanno nel DNA.

Per anni la secessione è stato il sogno nel cassetto, il vessillo della libertà delle genti padane, da sventolare ai raduni in canottiera tra Pontida e la sorgente del Po. Quando poi non c’era da bruciare la bandiera italiana, a Venezia, dove si concludeva il cammino di celtizzazione del nord e dove si andava a versare l’ampollina raccolta alle sorgenti del Po. Raccontare di quella Lega oggi sarebbe troppo semplice, in fondo erano anche coloriti e non destavano preoccupazione, erano un fenomeno regionale. Riposti i forconi e le bandiere verdi per l’anno dopo, smaltite salamelle e birra, tutti tornavano alle loro valli, alle attività, perché in fondo va bene fare baldoria ma il lavoro è il lavoro e i dané sono i dané. 

Per qualche voto in più, la nuova Lega, riesce a rinnegare anni di antimeridionalismo, improvvisamente napoletani e siciliani non puzzano più, hanno smesso di incitare l’Etna. Adesso è arrivato il momento di prima i siciliani, i calabresi, i sardi, i campani, i pugliesi. Incredibilmente riescono a darla anche a bere a chi ha come valori la difesa dell’identità nazionale, la bandiera, l’onore, la parola data. La Lega del dopo Bossi comincia a trovarsi d’accordo con le frange estreme della destra, comincia a flirtare con i neofascisti, trova modelli estranei alla cultura di questo Paese, come il respingimento in mare di profughi e immigrati, facendo diventare loro i nuovi terroni, spingendo un po’ più a sud il confine del sacro Po per salvare l’identità nazionale. Nel corso di una sola stagione elettorale, il Matteo del Papete riesce a cambiare idea più volte sulla permanenza in Europa, l’Euro diventa un sasso al piede per l’economia del Paese tanto da ipotizzare l’emissione di una valuta parallela. L’autarchia economica salviniana rifiuta i soldi che arrivano dall’Eu – di cui facciamo parte, quindi soldi anche nostri – a tassi premianti o a fondo perduto per ricorrere al mercato, alle condizioni di mercato. A Bruxelles riesce a stringere alleanze con i maggiori leader dei partiti populisti e sovranisti, diventando lui stesso vittima del sovranismo dei suoi alleati. Nessun aiuto da parte di Orban, dell’olandese Geert Wilders. 

Tra un bagno e uno spritz è artefice del nuovo soggetto politico sovranista europeo, con l’obiettivo dichiarato del gruppo, sotto il motto ‘i popoli rialzano la testa’, di sovvertire gli equilibri all’interno del Parlamento Europeo.

Tra un rosario ostentato e una mascherina commemorativa, o una divisa sfoggiata, il Matteo del Papete ha una ricetta per tutto. In poche settimane riesce a battersi per i No mask e per i commercianti, il lockdown è un colpo di stato mascherato ma poi  chiede misure più rigide perché “non è così che un governo serio combatte una pandemia” e in fine invita alla disobbedienza civile. Percorre l’Italia su e giù sembra la vera attività dell’ex titolare del ministero degli Interni, dove, in dieci mesi d’incarico, l’hanno visto appena 11 volte. Ha più tempo per farsi ritrarre con sindaci e amministratori locali, come la sindaca di San Germano Vercellese, Michela Rosetta, un modello di amministratore locale a marchio Lega, campione di iniziative contro gli immigrati, a cui sottraeva gli aiuti alimentari che girava a chi non ne aveva diritto o necessità.

Nelle ore in cui il Presidente Biden si insediava alla Casa bianca, al Parlamento europeo si votava un emendamento del gruppo socialista di dura e ferma condanna all’assalto del Campidoglio da parte dei sostenitori di Trump e di “difesa della democrazia, dei diritti umani e dello Stato di diritto a livello globale.”

Un testo di una evidenza e una solarità che dovrebbe essere persino banale formulare in un consesso democratico, nel 2021.

E invece, che ci crediate o no, Lega (astenuta) e Fratelli d’Italia (addirittura contro) sono riusciti nell’impresa di non votarla, e quindi non condannare nemmeno questo scempio. 

Ma se la politica nazionale e internazionale appassionano poco, credo che non possiamo fare a meno di ragionare come il Matteo del Papete e il suo governatore lombardo hanno trattato la salute dei lombardi.

Da Formigoni in avanti, uno dei migliori apparati di sanità pubblica europea è stato sistematicamente demolito, a tutto vantaggio dei privati e durante questa pandemia ha mostrato tutti i suoi problemi:

– l’acquisto saltato di 4 milioni di mascherine dopo essersi rivolti a una ditta che non le produceva; 

– la delibera XI / 2906 con cui si stipavano persone positive al Covid nelle case di riposo per anziani; 

– l’Ospedale “Fiera” Milano progettato con 600 posti e realizzato con 53; 

– l’acquisto di spazi pubblicitari sui giornali per esaltare il modello sanitario regionale, nel momento in cui la sola Lombardia deteneva il 9,5% delle vittime mondiali e il 52% di quelle nazionali (28.224 vite salvate. Sanità privata insieme alla sanità pubblica);

– l’ex assessore Giulio Gallera che, dopo mesi e mesi di pandemia, era convinto che con un indice Rt pari a 0,5 ci volessero “due persone infette nello stesso momento per contagiarne una”; 

– l’ex assessore Giulio Gallera che, con una serie di scatti su Instagram, senza rendersene conto, rendeva noto di aver violato due regole del Dpcm (divieto di uscire dal Comune per fare sport e divieto di fare sport in gruppo); 

– una fornitura di camici affidata, senza alcuna gara, al cognato del Presidente Fontana;

– la Regione Lombardia che riteneva inutili i test sierologici ma che, in caso di risultato positivo degli stessi, chiedeva ai cittadini di pagarsi da soli i tamponi;

– i tamponi all’aeroporto di Malpensa avviati il 20 agosto, a estate ormai conclusa; 

– il tweet con cui la Regione Lombardia comunicava che per i turisti “è necessario effettuare il tampone solo se si fermano almeno per 4 giorni in Lombardia”;

– l’assenza, a dicembre inoltrato, dei vaccini antinfluenzali persino per i pazienti a rischio (over 65 con patologie pregresse);

– l’ex assessore Giulio Gallera che, nel commentare il terzultimo posto della Lombardia nella somministrazione delle dosi di vaccino anti-Covid, dichiarava che “è agghiacciante che alcune Regioni abbiano fatto la corsa al vaccino per dimostrare di essere più brave di chissà chi”.

– la nuova assessora Letizia Moratti che, per non far rimpiangere le gaffes del suo predecessore Gallera, propone di consegnare i vaccini anti-Covid tenendo conto del Pil dei territori.

Speravamo, appunto, di aver visto tutto. E invece, ciliegina sulla torta, adesso si scopre che la Regione Lombardia ha costretto alla zona rossa 10 milioni di persone per aver sommato, per errore, il numero dei guariti al numero dei positivi. 

Un ultimo dato: all’anagrafe calano i Matteo. Un dato che dovrebbe far riflettere i due Mattei nazionali.

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