Na tazulella ‘e cafè

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Storie dal “bél paèse” 

“L’Italia, l’Italia tutta intera, ha un grandissimo problema irrisolto col caffè”.

Anche il caffè cade vittima del revisionismo culturale, etico e consumistico che sta investendo alcuni simboli che rappresentano una stagione non felice della storia umana, la tratta degli schiavi. Non che mi dispiaccia, ma a volte le operazioni di revisionismo storiografico riescono a essere peggiori della stessa storia che tentano di rileggere. 

Il caffè ha origini africane, in Etiopia, ma la rarità delle piante e il costo di coltivazione spinsero i colonizzatori europei a esportare le piantagioni nel nuovo mondo, dove la pratica schiavista produceva importanti utili.

Noi italiani, maldestri colonizzatori, che ci siamo macchiati le mani del sangue di migliaia di africani, senza ragione e senza profitto – se vogliamo ragionare in termini utilitaristici – non abbiamo partecipato alla tratta degli schiavi, né abbiamo adottato il sistema come mezzo di sfruttamento umano ed economico su larga scala, com’è successo nel mondo anglosassone. E forse per questo, non potendo abbattere statue di schiavisti o colonizzatori, ce la prendiamo con i prodotti di quell’origine.

Un lungo articolo de La Repubblica demolisce un culto, un rito, una quotidianità che milioni di Italiani consumano ogni giorno senza essersi mai fatti alcune domande: ma sto bevendo il miglior caffè possibile, lo sto pagando quanto dovuto, esiste un caffè degno del suo nome? Tutte domande, invece, che l’autore s’è fatto e alle quali ha risposto anche con il supporto di diversi addetti ai lavori. L’articolo riconosce che gli italiani non amano il nazionalismo – eccetto forse per il calcio, ma quella è fede e non si discute, aggiungo – e indica alcuni prodotti tipicamente italiani, su cui non siamo disposti a transigere: pasta, pizza e caffè. E proprio per quest’ultimo viviamo in un enorme equivoco, anzi, uno dei più classici psicodrammi, di cui non ce ne rendiamo conto e di conseguenza non lo ammetteremo mai. E poi aggiunge “non ancora, per lo meno”. Evidentemente il giornalista ripone particolare fiducia sulla possibilità di redenzione degli italiani o sugli effetti taumaturgici del suo scritto.

L’articolo inizia spiegando le ragioni per cui gli italiani credono di bere il miglior caffè del mondo: una comunicazione errata e in cattiva fede, una retorica superficiale, elementi di goffo sciovinismo, forme passivo-aggressive di machismo. Ebbene, questi, secondo l’articolo, sarebbero le ragioni che fanno credere agli italiani di bere il miglior caffè del mondo, pensate, persino più di quello francese e tedesco, e non è una battuta. “Questo malinteso ha spiegazioni culturali, sociali, e antropologiche” afferma l’articolo “nelle quali non entreremo, ci limiteremo a spiegare però che gli elementi per giustificare questo senso di superiorità semplicemente non esistono. Anzi, proprio a cagione di questa spocchia in Italia si beve attualmente il peggior caffè del mondo”. 

Non escludo che da qualche parte, in giro per il mondo, si possa bere un caffè migliore di molti bar che si trovano nelle aree di servizio delle nostre autostrade, anzi, vi dico che quei luoghi sono l’ultimo posto dove potete trovare un buon caffè. Probabilmente la stanchezza della guida o la necessità di interrompere monotoni viaggi, molti italiani tracannano pessimi caffè come amare medicine, buone solo per distrarsi dalla noia della guida ma, se non stiamo bevendo il migliore caffè del mondo – sicuramente non quello della stazione di servizio – perché l’autore dell’articolo butta il sasso nello stagno del dubbio e conclude il suo prologo dicendo: “questo malinteso ha spiegazioni culturali, sociali e antropologiche nelle quali non entreremo”. 

Continuiamo a vivere nell’ignoranza e non sapremo mai le ragioni culturali, sociali, antropologiche che ci fanno vivere nel più grande equivoco e clamoroso malinteso gastronomico italiano e soffermiamoci sugli elementi, veri difetti, che l’articolo elenca e che ci fanno giustificare questo senso di superiorità che aleggia tra gli italiani in fatto di caffè.

Il primo a salire sul banco degli imputati è l’uso dello zucchero. Oltre l’evidente danno alla salute per il consumo di saccarosio che il caffè induce, “se una bevanda ha bisogno di un edulcorante per essere bevuta, è una bevanda che ha problemi”, si afferma perentoriamente nel lungo articolo. Non so dire se, in effetti, sia così, ma mi sorge un dubbio: e se gli italiani, e tutti quelli che zuccherano il caffè, fossero in buona compagnia? In molte regioni del mondo, Turchia, Iraq, Siria, ho bevuto un caffè – c’è concesso chiamarlo ancora così? – fortemente zuccherato che, come il tè, in quelle aree del mondo è consumato molto dolce. Probabilmente per l’autore quello servito in quei paesi non assurge al rango di caffè ma di altra bevanda.

Tostatura e colore del caffè. Anche su quest’argomento l’autore ha idee chiare e fermissime certezze. Il colore del chicco di caffè tostato deve essere marroncino tenue. Il colore scuro dei chicchi che vediamo nei macinini del bar è dovuto “all’abbrustolimento” che i torrefattori esercitano, secondo l’articolo, per coprire i difetti e la scarsa qualità, servendoci un estratto di carbone invece che caffè. Ahinoi! 

Il caffè, come qualunque prodotto vegetale, è soggetto a mutazioni e cambiamenti nel corso della lavorazione e anche dopo. Immaginare di mantenere il caffè con lo stesso colore come appena tostato, è un’ingenua convinzione.  Gli oli e la mutazione innescata dalla torrefazione, così come la luce, producono inevitabilmente un processo di decadimento. Basta consumarlo entro determinati parametri, senza farlo invecchiare troppo e prepararlo in un tempo ragionevole per gustare un buon caffè: del resto non abbiamo mai sentito parlare di un’ottima annata di arabica del “62.

Prezzo dell’espresso. Quando parliamo di caffè in Italia, ci riferiamo automaticamente all’espresso del bar o, fino a qualche anno fa a quello della moka fatta in casa, oggi sostituita dalle macchinette a cialde. L’articolo mette sotto accusa anche il prezzo dell’espresso – troppo basso – e addirittura collega lo sfruttamento, il lavoro nero e la sofferenza di tutta la filiera, dalla piantagione fino al bar, al prezzo che paghiamo. Evidentemente s’immagina che i nostri torrefattori e i proprietari dei bar abbiano proprie piantagioni o contratti di esclusiva, da poter imporre il prezzo più vantaggioso, saltando quello che comunemente avviene nella contrattazione delle aste internazionali. Un buon caffè, di marca, presso un distributore importante può oscillare dai 20 ai 30 e oltre €/Kg. Il prezzo può avere importanti oscillazioni in base a molti fattori, come la forza contrattuale del cliente, se il fornitore dà in comodato d’uso le attrezzature e altri accordi particolari. Parlando di miscele comunemente utilizzate in Italia, formate da arabica e robusta, in percentuali che variano in base al gusto del produttore, possiamo osservare che con un chilogrammo di caffè si preparano dalle 140 alle 160 tazzine di espresso, molto dipende dalla quantità che il barista sceglie di usare. L’ideale sarebbero sette gr., quindi, con un chilo si preparano 140 caffè che oggi producono, in media, 140 euro d’incasso. Se il ristoratore ha pagato il caffè a 30€ il chilo – solo i più piccoli e sprovveduti baristi lo pagano questo prezzo – sono comunque perfettamente in linea con il “costo della materia prima” del mondo della ristorazione.   

Caffeina e gusto. Nell’articolo si parla anche di paradosso, con riferimento agli effetti della caffeina, e il paradosso sta nel fatto che essendo un frutto tropicale come può “far male”? Anche qui l’autore dell’articolo rassicura che, come la banana o un altro frutto tropicale, non può far male, bensì è la cattiva gestione della filiera che produrrebbe un caffè con un’alta percentuale di caffeina, a essere dannosa al nostro sistema nervoso. Ancora una volta l’immaginazione suggerisce che i torrefattori italiani non riescano a intervenire sufficientemente sui metodi di coltivazione, per cui solo noi italiani beviamo un pessimo caffè. Quindi, anche bevendo una dozzina di caffè, proveniente da una filiera correttamente gestita, la caffeina di dodici tazzine di espresso non dovrebbe procurarci nessuno scompenso, è un frutto tropicale come può far male? 

Sui benefici del caffè e tutte le altre bevande nervine si sono spese migliaia pagine di ricerche, di test, di studi, dove tutte hanno nelle loro conclusioni un unico elemento: il caffè, il tè, la cioccolata, la camomilla e gli infusi assimilabili come quelli del guaranà o dell’erba Mate, sono accomunati dall’avere un effetto stimolante ed energizzante sull’organismo. Punto. 

Per il resto, ogni ricerca ha messo in risalto determinate conseguenze, benefici, danni ed effetti collaterali, tutto in accordo all’obiettivo che la ricerca voleva dimostrare. Sull’argomento non serve dire altro, si è già detto e scritto fin troppo, tanto da non avere chiaro ancora oggi se fa bene o male, però, tutti i ricercatori sono concordi nel dire che eccedere nel consumo può avere effetti nefasti. 

L’articolo afferma che gli italiani hanno la certezza che il caffè abbia il sapore che conosciamo. Come dire, siete sicuri, magari in realtà ha tutt’altro sapore. E, in effetti, si legge chiaramente: “Il sapore del caffè è altra cosa” e non quello del carbone cui siamo abituati. 

Se siamo abituati a bere estratto di carbone, qual è il caffè di riferimento, quello che avrebbe l’autentico sapore della bevanda che aspiriamo a bere quando mandiamo giù un espresso? È quello francese, tedesco, svedese o il lungo americano? E qual è il metodo di preparazione del caffè perfetto? Caffettiera moka, all’americana, con filtro mobile a compressione, espresso, filtrato, alla napoletana o forse quello turco, preparato nel cezve, il tipico bricco di rame e ottone con il lungo manico? 

Non c’è traccia, nessun riferimento da prendere come termine di paragone per comprendere cosa sia davvero il caffè e quale il suo gusto autentico.

Come far uscire il caffè dalla banalizzazione?

C’è, invece, nell’articolo, una serie di suggerimenti per far uscire il caffè dalla banalizzazione. Non è chiaro, neanche qui, se noi italiani abbiamo banalizzato il caffè come prodotto o forse come lo consumiamo, ed è ancora meno chiaro, il modello Smart o Cool, mutuando due termini dal linguaggio marketing, cui dovremmo guardare. Molti degli addetti ai lavori fanno riferimento allo “specialty coffè” una panacea a tutti i mali del comparto.

Lo specialty coffè è una corrente di pensiero che sta facendo capolino tra gli addetti e che mescola alcuni importanti concetti, come la sostenibilità, l’equo compenso per i produttori, controllo della filiera, forse un disciplinare sul prodotto caffè, come si è fatto con tanti altri prodotti – anche se nessuno ne parla – la preparazione professionale dei baristi. Una monumentale montagna di argomenti e buoni propositi che gli addetti ai lavori sentono come un’impellente esigenza per “sbanalizzare” tutto il comparto. Scorrendo tra le ricette che i ristoratori, baristi, torrefattori hanno elencato per un migliore e consapevole consumo della magica bevanda – insieme al tè la più bevuta in tutto il mondo – c’è quella di acculturare il cliente nel consumo del caffè, non “per esigenza” ma piuttosto “per esperienza”. Qualcuno indica la necessità di comunicare ai consumatori “che bere tazzine di caffè a un euro è, semplicemente, uno scandalo” e lo Specialty coffè è l’unico comparto dell’industria del caffè a non generare povertà. Immagino che i baristi di questi avveduti imprenditori percepiscano stipendi superiori alla media e paghino il caffè più del doppio del prezzo di mercato o, forse, lo Specialty è solo una bella etichetta per giustificare un espresso magari a tre Euro che ripaghi anche le luci, la musica e l’atmosfera. 

Sostenibilità e scelta Green sono due concetti che il marketing ha colto al volo per ammantare molti prodotti di una nuova veste, di moda, molto ricercati da un popolo di nuovi consumatori che non si limitano a consumare e basta ma si chiedono la provenienza e l’impatto su ambiente e popolazioni dei luoghi di provenienza dei prodotti che consumano. Non sempre quest’attenzione dei consumatori si traduce in migliori condizioni dell’origine della filiera, spesso è l’ultimo miglio a beneficiarne, ma vale ancora la pena insistere nel cercare di avere informazioni sulle condizioni dei lavoratori della filiera perché, in piccole realtà, a macchia di leopardo, significativi passi avanti sono stati fatti.

Tornando al clamoroso equivoco gastronomico d’Italia, che il lungo articolo de La Repubblica ha tentato di dipanare, più che equivoco gastronomico dovremmo parlare di provincialismo, come quello del consumatore italiano, convinto di bere il miglior caffè del mondo, forse anche l’autore sembra non essere sfuggito, soffermandosi sulle abitudini, sui tic e le manie, senza soffermarsi sulle origini di tutto ciò. 

Le abitudini, le usanze, le consuetudini, sommate al modo di vivere, alle tradizioni, sono tutti gli elementi stratificati, in una parola, qualcosa che ha a che fare con la cultura di un popolo, e se non si prendono in esame proprio quegli aspetti che all’inizio dell’articolo l’autore non ha voluto analizzare, è difficile comprendere cosa c’è dietro al caffè sospeso di Napoli o al Bicerin torinese.    

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