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Mario Sechi, campione di penna piegata

Nell’epoca dei leoni da tastiera, in cui lo scemo del bar sport si trasforma in raffinato intellettuale e megafono del potente di turno, il giornalismo non poteva certo rimanere immune. Anzi, è entrato a pieno titolo nella gara a “chi la spara più grossa”, una competizione feroce dove la verità è un optional e la dignità professionale un fastidioso dettaglio. Così, tra titoli urlati, indignazione a comando e acrobazie dialettiche per giustificare l’ingiustificabile, assistiamo ogni giorno a un carosello di opinionisti che sembrano più tifosi che cronisti, più imbonitori che analisti. 

E il pubblico?

Il pubblico assolve, giustifica, minimizza: “Tutti abbiamo famiglia, dobbiamo pur campare”. Come se la resa all’opportunismo fosse una legge di natura, come se il giornalismo, un tempo voce critica e indipendente, fosse ormai solo un’appendice del potere, un’eco del pensiero dominante, pronto a cambiare bandiera al primo cambio di vento.

E allora non è raro imbattersi in editoriali di inestimabile profondità, analisi illuminanti che gettano nuova luce sulla complessità del mondo contemporaneo. Insomma, autentiche pietre miliari del giornalismo… o almeno così vorrebbero farci credere. In realtà, spesso si tratta di capolavori involontari(?) dell’arte del servilismo, esercizi di equilibrismo retorico in cui la logica si piega con eleganza alle esigenze del potente di turno. 

Campione di penna piegata

Uno dei campioni di questa nobile disciplina, un vero maratoneta della penna piegata a novanta, è Mario Sechi. Con poche righe, è riuscito non solo a mortificare l’intelligenza dei suoi lettori, ma anche la propria, regalando al panorama giornalistico un pezzo che non avrebbe sfigurato nell’ufficio stampa del Minculpop. Un editoriale così ossequioso da far impallidire i manuali di propaganda, una prosa così solenne e deferente che viene quasi da chiedersi se, nel frattempo, abbia ricevuto un invito a corte o una medaglia al valore per il suo encomiabile zelo. 

“giornalista più allineato dell’anno”

Ma Sechi non è certo solo in questa corsa sfrenata al titolo di “giornalista più allineato dell’anno”. La categoria pullula di concorrenti agguerriti, professionisti dell’inchino, specialisti del cerchiobottismo, strateghi della narrazione conveniente. Perché, in fondo, l’informazione moderna è diventata una partita di prestigio: si fa finta di analizzare, si simula un dibattito, si impacchetta un’opinione prefabbricata e la si vende come verità rivelata. E il pubblico? Beh, il pubblico è chiamato ad applaudire e a credere. Oppure a voltarsi dall’altra parte, con la solita rassegnazione: “Tutti abbiamo famiglia, dobbiamo pur campare” e quando tutto ciò non basta, c’è sempre qualcuno che potrà dire “Bau Bau” per innalzare il livello del dibattito.

Nouvelle Marianne” del Testaccio

Per Sechi, Giorgia Meloni è la scossa che risveglia un’Europa intorpidita, la fiaccola che illumina il cammino di un continente sonnambulo. È la “Nouvelle Marianne” del Testaccio, la nuova Giovanna d’Arco pronta a impugnare la spada per salvare le sorti dell’Occidente, tra un comizio infuocato e una citazione di Tolkien. 

“Con Donald Trump gli Stati Uniti non sono più una potenza in declino, goffamente inciampata sulla scaletta dell’Air Force One, ma tornano a essere la forza che trasforma il mondo”. Una benedizione, per Sechi, in un panorama globale disseminato di istituzioni fallimentari.  “L’Onu e la Corte penale internazionale sono organismi falliti,” proclama Sechi. “Il destino dell’Europa non si decide nel Palazzo di Vetro, dove si agitano satrapi e antisemiti; la sicurezza dell’Italia non può dipendere da un tribunale screditato con sede all’Aia.” 

Il futuro della nazione, nelle intenzioni di Sechi, risiede nel rapporto privilegiato con Washington, mentre il governo Meloni tesse una rete di alleanze che si estende dall’Atlantico al Mediterraneo, fino all’Indo-Pacifico.  A leggere l’analisi dell’ex portavoce del governo Meloni, l’Italia sembra ormai pronta a candidarsi per diventare la 51ª stella della bandiera a stelle e strisce.

I soliti giudici guastafeste

Nel frattempo, a Washington, il neopresidente Trump si scontra con una realtà che sembra aver sottovalutato: l’esistenza dei tribunali. Gli stessi che lo hanno già condannato per il caso Stormy Daniels, ora frenano la sua corsa a colpi di ordini esecutivi. Uno dei primi stop arriva proprio sulla questione dello Ius soli: la magistratura respinge il suo tentativo di cancellare con un tratto di penna il diritto di cittadinanza per nascita.  

Ma non è l’unico ostacolo giudiziario che Trump deve affrontare. Altri tribunali stanno esaminando la legittimità delle sue mosse, mentre l’opposizione democratica e alcune frange repubblicane cercano di contrastare la sua agenda. Il braccio di ferro tra Casa Bianca e sistema giudiziario si preannuncia lungo e feroce, con il rischio di una paralisi istituzionale che potrebbe infiammare ulteriormente un Paese già polarizzato.

Chissà, forse la nostra presidente del Consiglio ha trovato il tempo di offrire qualche suggerimento al presidente Trump su come affrontare la magistratura. Dopotutto, in Italia l’arte di delegittimare i giudici, screditare le istituzioni e attaccare quotidianamente la Costituzione è una pratica ben rodata. Un’esperienza che potrebbe tornare utile a un presidente che, nel giro di pochi minuti, ha ribattezzato il Golfo del Messico—chiamato così da secoli—con il più patriottico e autoreferenziale “Golfo d’America”, come se bastasse un colpo di penna per riscrivere la geografia.  

Del resto, Trump non è nuovo a simili colpi di scena. Dalla minaccia di “comprare” la Groenlandia, come fosse un pezzo di real estate di Manhattan, alla suggestione di mettere le mani sul Canale di Panama, il suo approccio alla politica estera somiglia più a quello di un magnate immobiliare in vena di shopping che a quello di un presidente consapevole del peso delle relazioni internazionali.  

Arrivano i nostri

Eppure, c’è chi lo applaude. Mario Sechi, per esempio, sembra guardare a tutto questo con l’entusiasmo di chi è cresciuto a pane e western, convinto che l’arrivo dei “nostri” possa risolvere qualsiasi situazione con una rapida scazzottata e un colpo di fucile ben assestato. Ma la realtà è ben più complessa di una sceneggiatura hollywoodiana, e la storia insegna che il mondo non si governa a colpi di slogan, effetti speciali e narrazioni sensazionalistiche, soprattutto quando a sostenerle è un giornalismo mediocre e compiacente.

Bruno Vespa: l’eterno custode del potere (e della poltrona)

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Sì, lui, il giornalista che sembra aver trovato la fonte dell’eterna giovinezza (o almeno dell’eterna presenza in video). Da oltre 50 anni presiede con maestria il salotto buono dell’informazione pubblica, dimostrando che, mentre tutto cambia, lui no. 

Da oltre mezzo secolo, il nostro eroe dell’informazione pubblica è lì, saldo alla sua scrivania, con l’aplomb di chi sa che il tempo passa, i governi cambiano, ma Porta a Porta resta. Che sia la Prima Repubblica, la Seconda, la Terza (e chi ci capisce più a che numero siamo), il nostro Bruno nazionale è sempre lì, con la sua voce rassicurante e i suoi plastici, a spiegare l’Italia agli italiani.  

L’uomo che vide passare tutto (e tutti)

Quando Bruno Vespa iniziò la sua carriera, l’Italia aveva ancora la lira, la televisione era in bianco e nero e i social network erano i bar sotto casa. Da allora, abbiamo visto governi cadere, ideologie sfumare e persino la pandemia cambiare il mondo. Ma Vespa? Lui è sempre lì, immutabile come un monumento, pronto a intervistare il potente di turno con quella sua aria tra il paterno e il complice.  

Bruno Vespa non è un semplice giornalista. È un’istituzione, un monumento vivente del servizio pubblico, un uomo che ha trovato il segreto dell’eterna giovinezza professionale: essere sempre dalla parte giusta. O meglio, dalla parte di chi comanda. Non importa se il vento soffia da destra, da sinistra o da un’improbabile corrente centrista: lui ha la straordinaria capacità di intercettare il nuovo potere prima ancora che questo si insedi comodamente sulle poltrone di Palazzo Chigi. 

Il segreto della longevità televisiva  

C’è chi dice che il segreto della sua longevità sia una dieta a base di domande soft e di battute pronte. Altri sostengono che abbia stretto un patto con qualche divinità mediatica. La verità, forse, è più semplice: Bruno Vespa ha capito prima di tutti che, in Italia, il potere ha sempre bisogno di un buon microfono e di una poltrona comoda. E lui, con la sua capacità di adattamento, è diventato il punto di riferimento per chiunque voglia apparire in TV senza rischiare domande scomode.  

Questa longevità mediatica ha del miracoloso. Se un comune impiegato pubblico, raggiunti i 67 anni, è costretto a salutare scrivania e badge, Bruno Vespa supera le ottanta primavere con l’energia di un ventenne e il contratto di un immortale.  

Il maggiordomo del potere 

Ma ridurre Vespa a un semplice giornalista longevo sarebbe ingiusto. Lui è qualcosa di più: un raffinato cerimoniere del potere, un facilitatore della narrazione istituzionale, un eccellente tessitore di tappeti rossi per i potenti di turno. Nessuno più di lui sa rendere un’intervista una confortevole chiacchierata, in cui il leader di giornata può spiegare, giustificare, rassicurare senza troppe impertinenze.  

Il re del “non prendiamoci troppo sul serio” .

La genialità di Vespa sta nella sua capacità di trasformare ogni intervista in una chiacchierata tra amici. Che si tratti di un premier, di un ministro o di un leader di opposizione, il format è sempre lo stesso: un po’ di storia, un po’ di attualità, una battuta spiritosa e via, si va avanti senza scossoni. È come se Vespa ci dicesse: “Ragazzi, non prendiamoci troppo sul serio, alla fine siamo qui per farci due risate e parlare di politica come se fosse una partita di calcio”.  

Ogni premier che si rispetti, da Andreotti a Meloni passando per Berlusconi, Renzi e Prodi, ha trovato in Vespa un interlocutore affidabile, pronto a offrire una poltrona e un sorriso complice. Anche i dittatori più lontani hanno trovato da lui ospitalità: da Gheddafi, accolto con tutti gli onori, fino ai più recenti statisti in cerca di legittimazione.  

Un servizio pubblico… al potere  

C’è chi critica Vespa per la sua vicinanza ai potenti, chi lo accusa di essere troppo accomodante, chi lo definisce il “portavoce non ufficiale” del governo di turno. Ma forse, in un paese come l’Italia, dove la politica è spesso un teatro, Bruno Vespa è semplicemente il regista perfetto: sa come mettere in scena lo spettacolo, senza mai far saltare il copione.  

E poi ci sono i plastici. 

Perché Vespa non si accontenta di raccontare la realtà, lui la ricostruisce. Il delitto di Cogne, il terremoto dell’Aquila, i disastri naturali e politici: ogni evento epocale trova la sua rappresentazione in miniatura sul tavolo di Porta a Porta, come in una lezione di geografia “for dummies”. Si dice che la prossima frontiera sia la creazione di un plastico dell’Italia intera, con un Bruno Vespa in scala ridotta che spiega la vita politica direttamente da Montecitorio.  

Il futuro? Sempre lui 

Qual è il futuro di Bruno Vespa? Domanda inutile. Lui c’era, c’è e ci sarà. Quando le nuove generazioni di giornalisti penseranno che sia finalmente arrivato il loro turno, lui sarà ancora lì, con il suo aplomb istituzionale, a moderare un dibattito tra l’ennesimo presidente del Consiglio e l’opposizione di turno.  

Tra 50 anni, quando i robot governeranno il mondo e le auto volanti saranno il mezzo di trasporto più comune, c’è una cosa di cui possiamo essere certi: Bruno Vespa sarà ancora lì, con la sua cravatta impeccabile e il suo sorriso rassicurante, a intervistare il primo androide premier. 

Perché, diciamocelo, in un mondo che cambia così velocemente, è bello sapere che c’è qualcuno che resta sempre lo stesso.  

Grazie, Bruno. Sei la prova vivente che, in Italia, l’unica cosa più longeva del potere è chi lo racconta.

Giorno della Memoria

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Il Giorno della Memoria, istituito per ricordare lo sterminio di sei milioni di ebrei, insieme a oppositori politici, rom, omosessuali e altre minoranze perseguitate dal regime nazista, non è solo un richiamo al passato, ma un monito sul pericolo sempre presente di odio, razzismo e intolleranza. Eppure, questa giornata assume una dimensione complessa e spesso contraddittoria, soprattutto se letta alla luce delle tensioni politiche e sociali del nostro tempo, dove il riemergere dell’antisemitismo e le sofferenze inflitte al popolo palestinese pongono interrogativi urgenti.

Quale memoria?

Negli ultimi anni, abbiamo assistito a una recrudescenza dell’antisemitismo su scala globale. Attacchi contro sinagoghe, profanazioni di cimiteri, aggressioni fisiche e la diffusione virale di teorie complottiste antisemite dimostrano che il pregiudizio contro gli ebrei è tutt’altro che relegato al passato. Questo fenomeno non è solo un’ombra della storia, ma una realtà tangibile che richiede un impegno costante per essere combattuta. Tuttavia, le commemorazioni della Shoah rischiano di perdere la loro forza trasformandosi in rituali privi di sostanza, se non accompagnate da azioni concrete per contrastare le nuove manifestazioni di odio. La memoria non può appartenere a una sola parte o a una sola minoranza; deve essere un patrimonio collettivo, capace di parlare a tutti e di sfidare le ingiustizie del presente.

Al tempo stesso, il Giorno del Ricordo non dovrebbe essere confinato a una visione autoreferenziale di un sionismo ripiegato su se stesso, distante dalle sue intenzioni originarie. Nelle prime fasi del movimento, il sionismo mirava a garantire al popolo ebraico un “focolare nazionale” in Palestina, come sancito anche dal Regno Unito, che si impegnò a destinare quei territori per tale scopo. Tuttavia, questo progetto includeva un chiaro vincolo: non doveva ledere «né i diritti civili e religiosi» delle popolazioni già presenti, né compromettere «lo status politico degli ebrei nelle altre nazioni». La realtà odierna, segnata dall’occupazione, dagli insediamenti illegali e dalla violenza nei territori palestinesi, racconta un epilogo ben diverso, aprendo ferite ancora sanguinanti.

La contraddizione del presente

Oggi, il significato del Giorno della Memoria si intreccia inevitabilmente con le sofferenze vissute dal popolo palestinese. L’espansione degli insediamenti nei territori occupati, la militarizzazione della Cisgiordania, le rappresaglie a Gaza e gli sgomberi forzati di comunità palestinesi aggiungono un nuovo livello di complessità a questa commemorazione. Mentre si ricorda il genocidio che ha colpito gli ebrei, non si può ignorare la condizione di un altro popolo che subisce quotidianamente restrizioni, privazioni e violenze. Quasi cinquantamila morti palestinesi dall’inizio dell’operazione “Piombo Fuso” sollevano domande scomode: è possibile commemorare una tragedia senza affrontare le ingiustizie attuali? È legittimo separare le memorie delle vittime dalla realtà di nuove sofferenze?

Per molti, accostare l’Olocausto alle morti palestinesi potrebbe apparire irrispettoso, quasi una forzatura che riduce la dignità delle tragedie a un confronto sterile. Da un lato, le vittime innocenti di un’ideologia genocida; dall’altro, un popolo segnato dall’occupazione e dalla privazione dei diritti fondamentali. Tuttavia, è proprio questa tensione a interrogare la nostra coscienza collettiva. Commemorare il passato senza riconoscere le disumanizzazioni del presente rischia di trasformare la memoria in un esercizio vuoto e autoreferenziale.

Il valore universale della memoria

Il Giorno della Memoria non può essere soltanto un momento per ricordare ciò che è stato, ma deve rappresentare un’opportunità per riflettere su ciò che è e su ciò che potrebbe essere. La Shoah non è solo una tragedia ebraica; è un monito universale sui pericoli dell’odio, del razzismo e della disumanizzazione. Allo stesso modo, la sofferenza del popolo palestinese ci invita a considerare come le dinamiche di esclusione e oppressione possano perpetuarsi in forme diverse, ma ugualmente ingiuste.

La memoria, se disconnessa dalla consapevolezza del presente, perde il suo valore trasformativo. Non basta ricordare; è necessario agire, interrogarsi, costruire ponti. Solo così il ricordo diventa un vero strumento di cambiamento, capace di illuminare il futuro e prevenire nuove tragedie. Il Giorno della Memoria, in questo senso, non è solo un atto di omaggio alle vittime del passato, ma un impegno a difendere i diritti umani, ovunque e per chiunque.

I veri nemici di Israele: bufale, cattiva informazione e zelanti disinformatori

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Nel mare magnum del web è frequente imbattersi in bufale, disinformazione e cattivi maestri ma confidi sempre che chi legge sappia distinguere e comprendere se non smascherare le strampalate idee e le assurde ipotesi che propongono, perché tutto non diventi un bar sport.   

Tuttavia, questa fiducia nella capacità critica del pubblico viene spesso messa alla prova. I social media, che avrebbero dovuto democratizzare l’informazione, hanno invece amplificato le voci più stridenti, premiando la spettacolarità rispetto alla veridicità. Algoritmi progettati per massimizzare il coinvolgimento si trasformano in complici involontari di teorie del complotto, fake news e narrazioni costruite ad arte. Il risultato? Un “mare magnum” che più che informare, disorienta, lasciando spazio a polarizzazioni estreme e a discussioni superficiali.

Quello che dovrebbe essere un sano dibattito si trasforma spesso in una guerra di slogan, dove la competenza cede il passo alla presunzione e al pregiudizio. La complessità delle questioni viene ridotta a meme, a frasi ad effetto che conquistano cuori e like, ma che raramente portano a una comprensione più profonda. Il rischio, allora, non è solo che “tutto diventi un bar sport”, ma che il bar sport diventi il modello dominante del discorso pubblico.

E qui sorge una domanda cruciale: quanto è diffusa oggi la capacità di distinguere tra verità e menzogna, tra informazione e manipolazione? Certo, ci sono strumenti e iniziative per educare alla consapevolezza digitale, ma la loro portata sembra insufficiente di fronte all’ondata incessante di contenuti disinformativi. È come cercare di svuotare il mare con un secchio.

La responsabilità, però, non può ricadere interamente sul lettore. Piattaforme, giornalisti e istituzioni hanno un ruolo fondamentale nel creare un ecosistema dell’informazione più sano. Una maggiore trasparenza sugli algoritmi, un impegno concreto contro le fake news e una valorizzazione della qualità rispetto alla quantità sono passi necessari per uscire da questa spirale. 

Ma alla fine, tutto si riduce alla consapevolezza individuale: imparare a non accettare ogni cosa che leggiamo come verità assoluta, a verificare le fonti, a distinguere tra chi informa e chi manipola. Solo così possiamo sperare di navigare con lucidità nel mare magnum del web, trasformandolo da una giungla di parole a uno spazio realmente utile per la crescita collettiva.

I nemici di Israele.

Dopo questo lungo preambolo veniamo all’argomento di questo articolo: i veri nemici di Israele.

Qualche giorno dopo la strage del 7 ottobre del 2023, compiuta dai terroristi di Hamas, dove 1200 israeliani sono stati trucidati, tra di loro inermi donne e bambini, il web si è scatenato: ogni frequentatore del web aveva una teoria, una soluzione o una verità da presentare. Chi per lavoro legge e scrive, difronte a evidenti bufale o ciclopiche menzogne ha il dovere di reagire, di opporsi di cercare, quanto meno, di smascherare la mistificazione. 

Tra le pagine di Facebook di quelle ore comparve un post corredato da una foto storica: il Gran Mufti di Gerusalemme, Amin al-Husseini, ritratto nel 1941 accanto a Hitler. L’intento del post era chiaro: tracciare un filo diretto tra l’atavico odio degli arabi verso gli ebrei, il presunto progetto mai abbandonato di “cancellare” gli ebrei dalla Terra Santa da parte dei musulmani, e addirittura insinuare una responsabilità araba nell’Olocausto. 

Chiunque abbia una conoscenza minima della storia sa che quell’incontro tra al-Husseini e Hitler fu un episodio marginale, senza alcun peso reale sulle tragiche sorti dei milioni di ebrei sterminati nei campi da tedeschi e, in misura minore, da italiani. Eppure, il messaggio era volutamente strumentale: preparare il terreno ideologico per giustificare quanto il governo israeliano stava annunciando in quelle stesse ore—la completa devastazione di Gaza. 

Purtroppo, Netanyahu ha mantenuto la promessa, e oggi, a quasi cinquantamila morti, i commenti sotto quello stesso post offrono uno spaccato agghiacciante della retorica giustificativa. Si legge, per esempio: “L’Egitto riottenne il Sinai con gli accordi di pace, ma non volle Gaza. La Giordania chiese aiuto a Israele per l’acqua, ma non rivolle la Cisgiordania. I palestinesi (una geniale invenzione di Arafat) hanno rifiutato cinque proposte di pace e la possibilità di avere uno Stato”.

In sostanza, il sottotesto è chiaro: i palestinesi se la sono cercata. 

Questo tipo di narrazione, abilmente costruita, non solo distorce i fatti storici ma tenta di cancellare la complessità del conflitto e le responsabilità stratificate di entrambe le parti, riducendo tutto a un’unica conclusione manichea: la colpa, ancora una volta, è solo di chi subisce.

La cattiva coscienza di noi europei.

Senza bisogno di essere un fine storico o un ricercatore, appare evidente una contraddizione sorprendente: i discendenti di movimenti o forze politiche europee che, storicamente, hanno avuto un ruolo nelle persecuzioni contro gli ebrei, si ritrovano oggi tra i più accesi sostenitori delle politiche israeliane, in particolare quelle legate all’espansionismo territoriale e al progressivo restringimento dei diritti dei palestinesi. Questo paradosso è il risultato di una complessa evoluzione storica, politica e ideologica, che merita di essere analizzata per comprenderne le radici e le dinamiche.

Evoluzione ideologica e politica

Molte forze di estrema destra, in particolare in Europa e negli Stati Uniti, hanno ricalibrato la propria retorica nel dopoguerra, spostando la loro narrativa dall’antisemitismo tradizionale all’islamofobia. In questo contesto, Israele viene percepito come una “fortezza occidentale” in Medio Oriente, in lotta contro un nemico comune: il mondo arabo e musulmano. Questo ha portato alcuni di questi gruppi a diventare strenui sostenitori di Israele, non per un cambio autentico di valori, ma per opportunismo geopolitico e ideologico.

Espiazione storica

Alcuni paesi europei con un passato di collaborazionismo o complicità nell’Olocausto hanno adottato politiche di forte sostegno a Israele come forma di espiazione morale e storica per le colpe del passato. Questo vale anche per alcune forze politiche che cercano di “ripulire” la propria immagine storica e legittimarsi agli occhi dell’opinione pubblica.

Strumentalizzazione politica di Israele

Israele è diventato, soprattutto durante la Guerra Fredda, un alleato strategico degli Stati Uniti e, più in generale, dell’Occidente. Forze politiche conservatrici, anche con un passato oscuro legato al nazionalismo o all’antisemitismo, si sono gradualmente allineate con la politica filo-israeliana, strumentalizzando il sostegno a Israele per consolidare la propria posizione nelle dinamiche geopolitiche.

La retorica dello “scontro di civiltà”

Dopo l’11 settembre 2001, si è diffusa la narrativa dello “scontro di civiltà”, che contrappone l’Occidente al mondo islamico. In questo quadro, Israele è stato dipinto come un avamposto dell’Occidente democratico e liberale contro un presunto nemico comune rappresentato dai paesi arabi e musulmani. Questo ha portato molti movimenti di destra e di estrema destra, tradizionalmente antisemiti, a riformulare il proprio discorso in termini di opposizione ai musulmani e a vedere Israele come un alleato naturale.

Complessità del conflitto israelo-palestinese

Per alcune forze politiche, il sostegno a Israele è legato anche a una visione semplificata e parziale del conflitto israelo-palestinese, che presenta Israele come vittima perpetua di attacchi esterni. Questa narrativa, spesso alimentata dai media e dalla propaganda, tende a oscurare le dinamiche di oppressione dei palestinesi e rafforza il sostegno alle politiche israeliane.

In sintesi, il sostegno di certi movimenti e partiti alle politiche israeliane odierne non è frutto di un’autentica adesione ai valori del sionismo o di un sincero sostegno al popolo ebraico, ma piuttosto di dinamiche geopolitiche, ideologiche e strategiche che si sono trasformate nel corso del tempo. 

Rimane un’ironia storica che questi gruppi, eredi di ideologie che in passato perseguitarono gli ebrei, oggi si presentino come autentici difensori del popolo ebraico.

Stiamo rivivendo l’età dell’oro

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La storia, ci viene insegnato a scuola, è un susseguirsi di corsi e ricorsi: eventi che si ripetono nel tempo e di cui, sorprendentemente, l’umanità sembra non fare mai tesoro, incappando spesso negli stessi errori.  

Il periodo storico che più richiama l’attuale situazione, dominata da disparità economiche, oligarchie e il crescente controllo di una ristretta élite sulle masse, è probabilmente quello della “Gilded Age” l’età dell’oro negli Stati Uniti, alla fine del XIX secolo. Questo periodo, che si estende circa dal 1870 ai primi anni del 1900, fu segnato da profonde disuguaglianze: enormi concentrazioni di ricchezza e potere si accumularono nelle mani di pochi industriali e finanzieri, mentre le classi lavoratrici si trovavano sempre più alienate e marginalizzate.

Il secondo governo di Donald Trump, insediatosi in queste ore, è caratterizzato dalla presenza di numerosi miliardari, segnando un record storico per gli Stati Uniti.  

Ecco alcuni dei principali membri del gabinetto, con i rispettivi ruoli e una sintesi dei loro profili e patrimoni:

         •       Elon Musk: Nominato Segretario alla Revisione della Spesa, Musk è l’uomo più ricco del mondo, con una fortuna che ha superato i 400 miliardi di dollari, da solo supera la somma del PIL del suo paese di origine, il Sudafrica che arriva appena 373 miliardi di dollari. Fondatore e CEO di aziende come Tesla e SpaceX, la sua nomina riflette l’intenzione di Trump di coinvolgere figure di spicco del settore tecnologico nel governo.  

         •       Scott Bessent: Designato Segretario al Tesoro, Bessent è il fondatore del fondo di investimento Key Square e ha collaborato strettamente con George Soros durante la crisi della sterlina. La sua esperienza nel settore finanziario è vista come un asset per la gestione economica del paese.  

         •       Howard Lutnick: Nominato Segretario al Commercio, Lutnick è un banchiere con un patrimonio stimato di circa 2 miliardi di dollari. La sua esperienza nel settore finanziario è considerata fondamentale per le politiche commerciali dell’amministrazione.  

         •       Linda McMahon: Scelta come Segretaria all’Educazione, McMahon ha costruito una fortuna di circa 2,6 miliardi di dollari grazie alla World Wrestling Entertainment (WWE). La sua nomina indica un approccio imprenditoriale alla gestione del sistema educativo.  

         •       Doug Burgum: Nominato Segretario agli Interni, Burgum è l’ex governatore del Dakota del Nord, con una fortuna che supera gli 1,1 miliardi di dollari. La sua esperienza politica e imprenditoriale è vista come un vantaggio per la gestione delle risorse interne del paese.  

         •       Vivek Ramaswamy: Incaricato del Dipartimento di Efficacia Governativa, Ramaswamy ha costruito una fortuna nel settore della biotecnologia, con un patrimonio stimato intorno al miliardo di dollari. La sua nomina riflette l’intenzione di Trump di snellire la burocrazia governativa.  

         •       Chris Wright: Nominato Segretario all’Energia, Wright ha un patrimonio stimato di 171 milioni di dollari. La sua esperienza nel settore energetico è considerata fondamentale per le politiche energetiche dell’amministrazione.  

         •       Robert F. Kennedy Jr.: Nominato Segretario alla Salute, Kennedy è noto per le sue posizioni controverse in materia di vaccini. La sua nomina ha suscitato dibattiti riguardo alle future politiche sanitarie dell’amministrazione. 

Il ritorno dei “robber barons”?

Questa particolare composizione del gabinetto pone una domanda cruciale: può un governo formato in larga misura da individui appartenenti all’élite economica davvero mantenere le promesse di Trump di migliorare la condizione della classe lavoratrice? La presenza di così tanti miliardari e figure legate agli ambienti finanziari alimenta il timore che le politiche adottate possano finire per privilegiare i loro interessi personali e quelli delle grandi imprese, piuttosto che rispondere alle necessità delle fasce più vulnerabili della popolazione. Questo scenario richiama alla memoria periodi storici come l’epoca dei “robber barons”, quando potenti industriali e finanzieri consolidarono il proprio dominio economico e politico, spesso a scapito dell’equità sociale e della giustizia economica, aumentando le disuguaglianze e fomentando corruzione sistemica.

Una montagna di soldi in arrivo nelle casse della coppia presidenziale

Poco prima del suo insediamento per il secondo mandato presidenziale, Donald Trump ha lanciato una criptovaluta denominata $TRUMP, ospitata sulla piattaforma blockchain Solana. L’offerta iniziale ha visto l’emissione di un miliardo di token, con 200 milioni resi disponibili al pubblico e 800 milioni detenuti da due società di proprietà di Trump.

Da aprile il presidente potrà iniziare a incassare parte di un tesoro che, stando alle quotazioni correnti, vale virtualmente 32 miliardi di dollari

Stiamo davvero per rivivere nuovamente, un secolo dopo, l’età dell’oro?

Durante la Gilded Age, figure come Rockefeller, Carnegie e Vanderbilt controllavano settori strategici come il petrolio, l’acciaio e i trasporti, accumulando fortune inimmaginabili mentre la maggior parte della popolazione viveva in povertà o con redditi appena sufficienti. Una situazione simile si riscontra oggi, con l’1% della popolazione globale che detiene quasi la metà delle ricchezze mondiali, mentre la maggioranza vive con redditi bassissimi.  

Influenza politica delle élite  

I magnati dell’epoca esercitavano un controllo quasi totale sul Congresso e sulle istituzioni attraverso finanziamenti e pressioni. Anche oggi si assiste a una crescente influenza delle grandi imprese e dei miliardari sulla politica, grazie al lobbying, alle donazioni elettorali e al controllo dei media.  

Populismo e polarizzazione sociale  

La Gilded Age vide anche l’emergere di movimenti populisti e socialisti, che si opponevano al potere degli oligarchi e chiedevano giustizia sociale. Allo stesso modo, oggi assistiamo a un’ondata di populismo, alimentata dalla rabbia contro le élite e dalla percezione di un sistema economico che favorisce pochi a scapito di molti.

Condizioni di lavoro e sfruttamento  

   Durante la Gilded Age, la classe operaia si spezzava la schiena con orari disumani, stipendi da fame e condizioni di lavoro che oggi farebbero impallidire persino le peggiori recensioni su LinkedIn. Tutto questo, ovviamente, per ingrassare le élite industriali dell’epoca. Oggi le cose sono cambiate… ma non troppo: il precariato, l’automazione e la gig economy hanno solo aggiornato il manuale dello sfruttamento, colpendo con precisione chirurgica i giovani e le fasce più fragili della società.  

Per amore di completezza storica, potremmo addirittura retrocedere fino all’Antica Roma dell’età tardo-repubblicana, cercando similitudini tra quel periodo e l’epoca che stiamo attraversando oggi. Certo, non c’erano i giornali nell’antica Roma, né TikTok per diffondere le lamentele dei proletari del tempo, e la circolazione delle idee era più lenta delle diligenze. Però, se guardiamo a come è andata a finire per Roma – con dittature, declino e, infine, un tracollo definitivo – forse non è proprio il paragone più rassicurante per il nostro futuro. Ma ehi, almeno allora avevano il pane e i giochi del circo: oggi ci accontentiamo di un like su Instagram.

Il Futuro delle Democrazie: Una Deriva Verso Tecnocrazie e Oligarchie?

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Negli ultimi anni, le democrazie occidentali hanno mostrato segnali di cambiamento che ne stanno alterando la natura. Un processo che, anziché rafforzare i principi cardine della sovranità popolare e della trasparenza istituzionale, sembra avvicinarle progressivamente a forme di tecnocrazia e oligarchia, dove decisioni cruciali sono prese da élite ristrette, talvolta senza un reale controllo democratico. Questo spostamento, spesso giustificato come necessario per affrontare sfide globali complesse, solleva domande fondamentali sul futuro di un modello politico che per decenni è stato il baluardo della libertà.

Trump il finto Robin Hood e la narrazione del potere muscolare

Donald Trump, figura emblematica del populismo contemporaneo, continua a fare notizia con dichiarazioni che oscillano tra il provocatorio e il surreale. Il suo recente proclama di voler “riprendersi il Canale di Panama” e, se necessario, “comprare o occupare con la forza la Groenlandia”, è solo l’ultimo esempio di una retorica che ignora convenzioni internazionali e relazioni diplomatiche consolidate. Eppure, ciò che colpisce non è tanto la gravità delle sue parole, quanto il silenzio o l’ambiguità della reazione occidentale. La propaganda di Trump si fonda sullo slogan di un’“America di nuovo grande”, una promessa che fa sognare – o forse illude, a seconda del punto di vista – milioni di cittadini. Tra questi, molte famiglie che, nel giro di pochi anni, hanno visto la globalizzazione e il crescente divario economico erodere una parte significativa del loro benessere e della loro capacità di spesa. Trump attribuisce la colpa di questa situazione a nemici esterni come la Cina o alla globalizzazione stessa o agli immigrati – probabilmente i veri artefici di una economia forte – piuttosto che al sistema politico dominato dalle lobby. Queste ultime hanno vincolato il Congresso agli interessi delle grandi imprese e della finanza, contribuendo a uno scenario che penalizza i più vulnerabili.

Proprio in queste ore, il rapporto annuale di Oxfam sulla povertà ha lanciato un allarme drammatico: metà della popolazione mondiale vive con meno di 6,85 dollari al giorno, mentre l’1% più ricco detiene il 45% delle ricchezze globali. Eppure, il dato più paradossale è un altro: è proprio tra i ceti più poveri e ai margini della società che la destra conservatrice, tradizionalmente garante dello status quo, raccoglie oggi il maggior consenso. Questo fenomeno appare inspiegabile, ma forse si radica in un’illusione collettiva: votare per lo stesso partito dei “padroni” nella speranza, un giorno, di diventare come loro. 

L’idea di un leader democratico che usa un linguaggio da imperialismo del XIX secolo dovrebbe generare scandalo, ma nel caso di Trump, appare quasi normalizzata. Questa accettazione tacita, o quantomeno riluttanza a criticarlo apertamente, pone un interrogativo spinoso: in cosa differisce una simile postura da quella adottata da autocrati come Vladimir Putin? Se si giudicano le intenzioni e i mezzi, le differenze si assottigliano drammaticamente. Del resto, gli esempi in Europa non mancano. Pensiamo a Viktor Orbán, emblema di una politica autoritaria e illiberale, o alla demagogia della destra britannica che ha condotto il Regno Unito fuori dall’Unione Europea con il miraggio di un futuro migliore. E in Italia? Anche qui non siamo immuni dai campioni delle illusioni, pronti a promettere cancellazioni delle accise, mille euro sul conto corrente di ogni cittadino o addirittura blocchi navali per fermare l’immigrazione. Promesse che suonano accattivanti, ma che si scontrano puntualmente con la realtà.

Oligarchie sotto mentite spoglie

Il problema non riguarda solo Trump. In generale, molte democrazie stanno cedendo terreno a strutture oligarchiche e tecnocratiche. Leader eletti utilizzano il mandato popolare come un lasciapassare per consolidare il potere personale o favorire interessi economici di élite ristrette. La democrazia diventa così un vestito formale che nasconde meccanismi di concentrazione del potere, con scarsa attenzione al bene comune.

Nel caso degli Stati Uniti, il Congresso sembra sempre più subordinato alle dinamiche delle lobby e del denaro, con un sistema politico che premia chi può investire miliardi in campagne elettorali. Questo scenario è replicato, con variazioni locali, in molte altre democrazie occidentali. La rappresentanza popolare rischia di diventare un’illusione, e il divario tra i cittadini e le istituzioni si allarga.

La tecnocrazia come alternativa ambigua

A complicare il quadro è la crescente influenza della tecnocrazia, cioè l’affidamento di decisioni cruciali a esperti, tecnici e burocrati. In un’epoca di crisi globali – dalla pandemia al cambiamento climatico, dalla sicurezza informatica alla regolamentazione delle intelligenze artificiali – il coinvolgimento degli esperti sembra inevitabile. Tuttavia, questa transizione verso la tecnocrazia ha un costo: le decisioni vengono spesso prese in spazi opachi, lontano dal dibattito pubblico, e le priorità della popolazione finiscono per passare in secondo piano.

Un esempio lampante è la gestione della pandemia da COVID-19, dove molte democrazie hanno accettato restrizioni straordinarie alle libertà individuali basandosi su consulenze tecniche. Sebbene giustificate in molti casi, queste misure hanno mostrato quanto velocemente le democrazie possano adattarsi a modelli autoritari, con un consenso che si basa più sulla paura che sulla partecipazione informata.

Il confronto con le autocrazie

Il confronto con i regimi autoritari rende la situazione ancora più ambigua. Putin, Xi Jinping e altri leader autocratici giustificano le loro azioni con argomentazioni non troppo diverse da quelle usate nelle democrazie in crisi: necessità di protezione nazionale, interessi economici strategici, e persino “desiderio popolare”. Quando Trump minaccia di comprare o occupare territori stranieri, il suo linguaggio non è meno imperialista di quello di Putin nei confronti dell’Ucraina. Eppure, il giudizio morale e politico sembra seguire due pesi e due misure, a seconda di chi sia il protagonista della narrazione.

Riflessioni sul futuro

Se le democrazie vogliono preservare la loro essenza, devono affrontare una serie di domande cruciali: qual è il limite tra leadership forte e autoritarismo?  

Quanto potere possono concentrare le élite economiche e tecniche senza erodere la sovranità popolare? 

Come preservare un sistema politico trasparente e rappresentativo in un’era di crisi globali?

La risposta non sarà facile. Ma se la democrazia si allontana dai suoi principi fondanti, rischia di diventare un simulacro di sé stessa, lasciando campo libero a tecnocrati, oligarchi e leader che non si distinguono più dagli autocrati che criticano.

La Politica in Eredità: Il Paradosso del Consenso Familiare in Italia  

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In Italia, il legame tra politica e famiglia è più forte di quanto si creda. L’orientamento politico, spesso, non è il risultato di una scelta consapevole o di un’analisi razionale, ma una vera e propria eredità tramandata da genitori a figli, come fosse un cognome o un immobile di famiglia. Questo fenomeno, benché diffuso in molte società, trova nella cultura italiana una peculiarità che affonda le radici nella storia e nel tessuto sociale del Paese.  

Un’identità politica per osmosi  

Per molte famiglie italiane, l’appartenenza politica non è solo una questione ideologica, ma un aspetto identitario. In un Paese dove il campanilismo e l’appartenenza territoriale contano tanto quanto (se non più di) le idee, crescere in una casa dove si vota “da sempre” per un determinato partito significa acquisire automaticamente quella stessa preferenza.  

“Qui si vota Democrazia Cristiana”, si diceva fino agli anni ’90; “Noi siamo di sinistra” è un mantra che riecheggia ancora nelle famiglie progressiste; “La destra è la nostra casa” continua a definire il nucleo valoriale di molte famiglie conservatrici. Non importa se i nomi dei partiti siano cambiati o se la scena politica abbia subito trasformazioni radicali: per molte persone, il voto resta legato a una tradizione familiare, più che a un’adesione consapevole.  

La conoscenza che manca 

E qui emerge il paradosso. In molti casi, chi eredita un’idea politica non ne conosce davvero i contenuti, i significati o la storia. Si finisce per votare seguendo il consiglio dei genitori, senza interrogarsi su cosa rappresenti davvero quel partito o movimento. Questa dinamica è evidente sia tra i giovani che si affacciano per la prima volta al voto, sia tra gli adulti che non hanno mai messo in discussione il modello politico appreso in famiglia. Il fenomeno emerge in modo lampante quando si osservano giovani o nostalgici dai capelli brizzolati inneggiare a ideologie, figure o eventi storici che hanno segnato una delle pagine più buie del nostro Paese. Si tratta di un’inquietante rievocazione di un passato in cui il Fascismo impose una dittatura che portò con sé morte, distruzione e migliaia di persone internate nei campi di concentramento. Il sacrificio di milioni di vite, vittime di un regime che trascinò l’Italia nella tragedia della Seconda Guerra Mondiale, sembra oggi ridotto a un dettaglio marginale, un’ombra sbiadita di un evento che, al contrario, ha inciso profondamente nella nostra storia recente.

Oggi, pochi elettori dei partiti che votano saprebbero spiegare con precisione quali sono i capisaldi del loro programma o da quali movimenti storici derivino. Il voto diventa così una sorta di automatismo, un gesto privo di coscienza critica, come scegliere una marca di pasta o un colore per dipingere le pareti, “perché lo si è sempre fatto così”.  

L’illusione della fedeltà 

L’eredità politica familiare si fonda su un’illusione di fedeltà ideologica, spesso smentita dalla realtà. I partiti cambiano, evolvono, a volte si trasformano radicalmente, ma nell’immaginario collettivo restano sempre legati a quell’identità storica che li ha caratterizzati nel passato. Un esempio lampante è il Partito Comunista Italiano (PCI), che molti continuano a identificare con l’attuale Partito Democratico, nonostante quest’ultimo abbia ormai una matrice profondamente diversa. 

Allo stesso modo, movimenti di destra nati dalle ceneri del Movimento Sociale Italiano (MSI) godono ancora del consenso di chi associa quelle idee a una determinata visione della società, senza riflettere sulle profonde trasformazioni che hanno subito. 

Un rifugio nella confusione 

La trasmissione di un’identità politica familiare è spesso una risposta alla complessità del panorama politico italiano. La frammentazione dei partiti, i continui cambi di alleanza e le retoriche confuse spingono molte persone a rifugiarsi nella familiarità di un voto che “è sempre andato bene”. In un certo senso, è un meccanismo di semplificazione: meglio fidarsi della tradizione di famiglia che cercare di decifrare un mondo politico in continuo cambiamento.  

L’effetto sui giovani 

Questa dinamica ha un impatto significativo sui giovani, spesso poco incentivati a sviluppare un pensiero politico autonomo. Il risultato è una scarsa partecipazione al dibattito pubblico e un disinteresse crescente verso le istituzioni democratiche. Invece di essere spazi di confronto e crescita, le discussioni politiche in famiglia si riducono spesso a scontri di slogan o, peggio, al silenzio. 

Alcuni giovani, tuttavia, trovano il coraggio di rompere con le tradizioni familiari. Questo avviene soprattutto in contesti in cui le idee politiche ereditate sono percepite come obsolete o in contrasto con i valori personali. Ma anche questa scelta non è priva di ostacoli, dato che mettere in discussione l’eredità politica può essere vissuto come un tradimento o una sfida all’autorità familiare.  

Come uscire dal circolo vizioso 

Per spezzare il ciclo della trasmissione politica inconsapevole, è fondamentale promuovere l’educazione civica e politica, soprattutto tra i giovani. La scuola, i media e le istituzioni dovrebbero incoraggiare il pensiero critico, offrendo strumenti per comprendere il funzionamento della politica e le sue implicazioni sulla società.  

Solo attraverso una maggiore consapevolezza sarà possibile restituire al voto il suo significato autentico: un atto libero e informato, capace di riflettere le reali aspirazioni e convinzioni di ogni cittadino, anziché il semplice eco di tradizioni familiari.  

In un’Italia che ambisce a essere una democrazia matura, questa riflessione non è solo auspicabile: è necessaria.  

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Agrigento 2025: La Capitale della Cultura e del Bitume Improvvisato

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Agrigento, la gloriosa Capitale Italiana della Cultura 2025, è riuscita a farsi notare ancora una volta. E no, non per un’esposizione memorabile o per un evento culturale epocale. Stavolta, il palcoscenico è tutto per l’asfalto. Sì, avete capito bene: quel grigio manto di bitume che copre le strade (quando non manca del tutto) è diventato il vero protagonista della vigilia dell’arrivo del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.

500 mila euro di cultura… per strada

Come accogliere degnamente il Capo dello Stato? Con un blitz di cultura urbanistica, naturalmente. Quale modo migliore di dimostrare l’amore per la propria città se non asfaltando, in fretta e furia, le arterie principali? Perché niente grida “Cultura 2025” come una colata di bitume fresco spalmata giusto poche ore prima che la massima autorità del paese metta piede in città.  

Certo, 500 mila euro per asfaltare strade può sembrare una cifra esagerata. Ma, d’altra parte, bisogna ammettere che il fascino dei Templi di Agrigento non sarebbe stato lo stesso senza una cornice di strade finalmente… percorribili. Peccato, però, che questa febbre asfaltatrice abbia avuto qualche effetto collaterale.

Chiusini sigillati: la cultura della “praticità” 

In questa frettolosa operazione di rifacimento stradale, è stato trascurato un piccolo, ma significativo dettaglio: i chiusini dell’acqua. Quei semplici tombini, dove i fontanieri aprono e chiudono l’erogazione dell’acqua settimanalmente, per regolare il servizio idrico, sono stati sigillati nell’asfalto fresco. Un’accoppiata che evidentemente non va d’accordo. E vi starete chiedendo: come mai, nonostante siamo in piena stagione delle piogge, i nisseni continuano a ricevere l’acqua a settimane alterne? Non siete i soli a domandarselo. Anche i cittadini del capoluogo siciliano da decenni si chiedono quando e come finirà questa emergenza che perdura ormai da anni.

Nel frattempo, il Presidente della Regione Schifano ha pensato che investire un milione di euro per registrare il concerto del Volo in pieno agosto, con il pubblico in cappotto, da mandare in onda la sera di Capodanno, potesse essere un rimedio alle difficoltà quotidiane dei cittadini.

Per cui, mentre le strade si trasformavano in piste lisce come una tavola da biliardo, i chiusini sono stati letteralmente asfaltati senza pensarci due volte. Un problema? Ma no! Chi se ne importa dell’acqua potabile quando hai strade lucide per accogliere Mattarella? Si chiama priorità culturale, gente.

La nuova arte di arrangiarsi 

Non manca chi ha trovato il lato positivo nella situazione. “È un’installazione d’arte contemporanea!” ha scherzato qualcuno. “Simbolo dell’eterno dualismo agrigentino: ciò che è sopra la superficie è curato, ciò che sta sotto… meno.”  

Certo, i fontanieri non erano proprio dello stesso avviso. “Ora per fare il nostro lavoro dobbiamo portarci un martello pneumatico”, ha commentato uno di loro, visibilmente esasperato. E non è difficile immaginare il malcontento dei residenti, che potrebbero trovarsi a secco non per un’emergenza idrica, ma per un eccesso di zelo asfaltatore.

Una Capitale della Cultura… di facciata? 

Questo episodio si inserisce perfettamente nel grande racconto di Agrigento Capitale della Cultura 2025: una narrazione fatta di gaffe e apparenze. Dai cartelloni stradali sgrammaticati ai problemi infrastrutturali che ogni tanto fanno capolino, questa nuova “grande opera” stradale sembra confermare una sensazione diffusa: più che investire in cultura, si investe in facciata.

Ma almeno le strade sono lisce. E i Templi, a dirla tutta, non sono mai stati così accessibili (a patto di non voler controllare se c’è acqua a casa).  

L’ironia della cultura… a secco

In conclusione, Agrigento ci regala l’ennesima perla: un evento che doveva celebrare la grandezza culturale del territorio finisce per diventare una tragicommedia di ordinaria inefficienza. La prossima volta che si parlerà di cultura, forse bisognerebbe partire dall’acqua. Perché, si sa, la cultura nutre l’anima, ma l’acqua… beh, quella serve a tutto il resto.

Ha senso la scuola di Valditara nel 2025? 

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La proposta del Ministro dell’Educazione e del Merito, Giuseppe Valditara, di reintrodurre il latino alle scuole medie, lo studio della Bibbia, la memorizzazione di poesie e un maggiore focus sulla storia d’Italia ha suscitato un dibattito acceso. La questione centrale è: ha senso tutto questo nel 2025, in un’epoca caratterizzata da tecnologie avanzate, globalizzazione e rapidi cambiamenti sociali?

Reintrodurre il latino alle scuole medie, studiare la Bibbia, imparare poesie a memoria e concentrarsi maggiormente sulla storia d’Italia: sono queste le proposte che il Ministro dell’Educazione e del Merito, Giuseppe Valditara, ha messo sul tavolo. Idee che richiamano una scuola più radicata nella tradizione, ma che inevitabilmente aprono un dibattito sulla loro reale utilità in un’epoca come la nostra, caratterizzata da rapidissimi cambiamenti.  

E il latino? 

Diciamolo chiaramente, il latino divide. Da un lato, è un linguaggio che porta con sé un’eredità straordinaria: le basi della nostra lingua, la nostra letteratura, persino il nostro modo di pensare. C’è chi giura che studiare il latino migliori la logica e insegni la disciplina. Eppure, dall’altra parte, non possiamo ignorare che viviamo in un mondo dove la richiesta di competenze è cambiata: sapere l’inglese o programmare in Python potrebbe fare la differenza più del genitivo assoluto. Il latino, quindi, è ancora uno strumento di crescita o rischia di essere un ricordo di un tempo che non c’è più?  

E la Bibbia? 

Che piaccia o no, la Bibbia è un pilastro della cultura occidentale. Non si tratta solo di religione: l’arte, la letteratura, la musica, persino il cinema sono pieni di riferimenti biblici. Capirli vuol dire avere le chiavi per decifrare parte del nostro passato e del nostro presente. Ma ha senso studiare solo la Bibbia? Viviamo in una società multiculturale e multireligiosa, dove i testi sacri non sono solo cristiani. Forse ampliare lo sguardo ad altre tradizioni potrebbe essere un ponte verso una comprensione più profonda del mondo in cui viviamo.  

E poi, le poesie a memoria? 

Qui il discorso si fa sentimentale. C’è qualcosa di magico nel recitare a memoria una poesia, nel ritrovare nelle parole di un poeta le nostre emozioni. È un esercizio che allena il cervello e il cuore. Ma quanto spazio possiamo dare alla memoria in un’epoca in cui tutto è accessibile in un clic? Forse il punto è trovare un equilibrio: più che imparare a memoria, capire a fondo, entrare in sintonia con i versi, farli propri.  

Infine, la storia d’Italia. 

Se c’è una proposta che sembra avere un senso quasi incontestabile, è questa. Sapere chi siamo, conoscere il nostro passato, ci aiuta a non perderci. Eppure, anche qui c’è una domanda da farsi: quanto possiamo concentrarci su noi stessi senza aprire lo sguardo al mondo? L’Italia ha una storia ricca e complessa, ma non possiamo ignorare il contesto globale, soprattutto in un’epoca in cui le connessioni tra i popoli sono più forti che mai. Ma è davvero la qualità dell’insegnamento che sta a cuore al nostro ministro o una certa revisione degli argomenti?

E quindi? 

La scuola che propone Valditara è anacronistica, rischia di guardare indietro più che avanti. Il mondo cambia troppo in fretta per restare ancorati a modelli del passato senza rinnovarli. Studiare il latino, la Bibbia, le poesie e la storia d’Italia può avere un senso, ma solo se queste materie si aprono al presente e si intrecciano con le competenze di cui i giovani hanno bisogno oggi. Tradizione e innovazione non devono escludersi a vicenda: possono convivere, ma serve una visione che sappia guardare in entrambe le direzioni.  

Al netto delle buone intenzioni del ministro Valditara, la sua proposta sembra rispondere più all’urgenza di ripristinare un vecchio modello scolastico che a quella di costruire un sistema educativo proiettato verso il futuro. Il ritorno al voto in condotta, alla valutazione numerica e ad altri aspetti tradizionali appare come un’operazione nostalgia, poco in sintonia con una scuola che si trova oggi al centro di una rivoluzione tecnologica. Con l’avanzare di intelligenza artificiale, reti informatiche e strumenti digitali, l’educazione ha bisogno di guardare avanti, abbracciando il cambiamento e preparandosi alle sfide di un mondo in rapida evoluzione, piuttosto che rimanere ancorata al passato.

In fondo, la vera domanda non è cosa insegnare, ma come insegnarlo. E soprattutto, per chi.

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Agrigento Capitale della Cultura 2025: un’occasione in bilico tra sogno e realtà  

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La nomina a Capitale della Cultura rappresenta un’opportunità unica: attirare turisti, rilanciare l’economia locale, e trasformare una città in difficoltà in un esempio di rinascita culturale. Ma la realtà di Agrigento è ben lontana dal sogno. 

Negli ultime settimane, l’organizzazione dell’evento è stata segnata da episodi imbarazzanti. Dai cartelloni stradali pieni di errori grammaticali, all’allagamento del teatro Pirandello durante un concerto, fino alla retromarcia delle istituzioni – con il ministro Alessandro Giuli e il presidente della Regione Renato Schifani che hanno annullato la loro partecipazione a eventi chiave – il percorso verso il 2025 sembra sempre più accidentato.  

La Valle degli Scrittori: un’eredità culturale straordinaria  

Agrigento non è solo la città della Valle dei Templi: è anche la culla di una tradizione letteraria che ha plasmato la cultura siciliana e italiana. Qui sono nati grandi autori come Luigi Pirandello, premio Nobel per la Letteratura nel 1934, le cui opere esplorano con profondità il tema dell’identità e delle contraddizioni dell’animo umano.  

È la terra di Andrea Camilleri, il “padre” del commissario Montalbano, che ha fatto conoscere la Sicilia al mondo attraverso le pagine dei suoi romanzi e le atmosfere di Vigàta, un luogo immaginario ma profondamente radicato nella realtà agrigentina.  

Agrigento e i suoi dintorni, parte integrante della cosiddetta “Valle degli Scrittori”, hanno ispirato anche Leonardo Sciascia, che con le sue opere ha raccontato le contraddizioni, la bellezza e i drammi della Sicilia contemporanea.  

Un territorio che lotta con le sue fragilità 

Dietro queste difficoltà si nasconde la realtà di un territorio che da anni affronta problemi strutturali. Le strade piene di buche, i rifiuti abbandonati agli angoli delle vie e i servizi pubblici inadeguati dipingono un quadro che stride con il titolo di Capitale della Cultura.  

La bellezza senza tempo della Valle dei Templi e l’eredità culturale della Valle degli Scrittori non bastano a celare le debolezze di un’amministrazione spesso incapace di rispondere alle necessità quotidiane dei cittadini. La nomina a Capitale della Cultura avrebbe potuto innescare un cambiamento profondo, ma i ritardi e le inefficienze rischiano di trasformare l’evento in un’occasione sprecata.  

Cittadini divisi tra ottimismo e disillusione  

In città, l’atmosfera è un misto di speranza e scetticismo. Se da un lato si registra un “boom di prenotazioni” turistiche, come segnalato da Federalberghi, dall’altro non mancano preoccupazioni per i ritardi nei lavori e l’assenza di una visione chiara. 

Il sindaco Francesco Miccichè minimizza le critiche, parlando di “clamore immotivato”. Ma i fatti – dai problemi logistici agli sfottò online per i cartelloni errati – sembrano raccontare una storia diversa. Il rischio è che la Capitale della Cultura diventi un titolo vuoto, incapace di generare il cambiamento che la città meriterebbe.  

Cosa serve per trasformare la promessa in realtà  

Agrigento ha ancora tempo per risollevarsi e dimostrare di essere all’altezza del titolo. Ma servono azioni concrete:infrastrutture adeguate, strade, trasporti e servizi devono essere potenziati per accogliere al meglio visitatori e cittadini. Una leadership forte, una direzione organizzativa chiara e competente è essenziale per superare i ritardi e gestire eventi di portata nazionale. Un coinvolgimento autentico della comunità, i cittadini devono essere protagonisti del progetto, non spettatori. Un focus sulla sostenibilità per valorizzare il patrimonio culturale senza comprometterlo, con una visione a lungo termine.  

Un futuro da costruire  

Agrigento Capitale della Cultura 2025 può ancora rappresentare una svolta, ma il successo dipende dalla capacità delle istituzioni di trasformare un titolo prestigioso in un reale motore di sviluppo.  Non basta ricordare il passato glorioso della Valle degli Scrittori o la magnificenza dei templi. Perché il 2025 non sia solo una vetrina, ma un punto di partenza per una vera rinascita, è necessario uno sforzo comune, guidato da una visione chiara e dall’impegno collettivo.  

Se le sfide attuali non verranno affrontate, il 2025 rischia di diventare l’ennesima occasione mancata per il rilancio della città. E Agrigento, con il suo carico di storia e contraddizioni, resterà ancora una volta bloccata tra le sue infinite potenzialità e una realtà che fatica a cambiare.

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