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Il mio G8 di vent’anni fa

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Non ho mai raccontato la mia esperienza al G8 di Genova di vent’anni fa, non avrebbe aggiunto o rivelato nulla a quello che abbia visto e letto sui quei terribili giorni. Anche una buona dose di disagio nel ricordare quelle poche ore trascorse a Genova mi ha fatto archiviare quell’esperienza. 

Come fotogiornalista raramente ho scelto di seguire quelle che in gergo si chiamano Hot News, gli eventi di una certa importanza che sono seguite dalle più importanti agenzie di stampa del mondo intero, ed è abbastanza ovvio che, come freelance, non posso competere sulla velocità. Infatti, la mia scelta cadde su un aspetto marginale, meno impattante ma certamente importante: avrei raccontato il G8 da un altro punto di vista, della gente comune, degli operai e pensionati che vivevano nelle zone rosse. Il settimanale tedesco al quale avevo proposto il servizio aveva dato luce verde. Ricevute alcune dritte e chiarita qualche richiesta, decisi di andare a Genova in treno. Da Milano erano diversi i gruppi di partecipanti e attivisti – chiamiamoli così – che riempivano i vagoni. L’aria che si respirava era quella di prima della battaglia, come quando Cesare, esortando l’esercito alla battaglia secondo l’uso militare, Cesare ricordò i propri meriti acquisiti in ogni tempo verso di loro e soprattutto, chiamando loro stessi a testimoni… ma loro malgrado, tanti finirono per essere protagonisti e molti anche vittime della violenza che in quelle ore si scatenò in tutta la città. La tentazione era di cominciare a fotografare e raccogliere qualche storia a bordo del treno ma poi, visto il clima che si respirava, ricordai a me stesso che non era quella la storia che stavo cercando di raccontare.

Alla radio le notizie riferivano di tafferugli e scontri isolati qua e la per la città ma nulla che lasciasse presagire quello che sarebbe accaduto da lì a qualche ora. Avevo appuntamento con Ettore, un pensionato della Breda che viveva a due passi da Piazza Alimonda, dove cadde ferito a morte Carlo Giuliani, il manifestante che stava tentando di scagliare un estintore su un carabiniere, rimasto intrappolato sulla jeep. Feci alcune foto di Ettore e di alcuni suoi vicini mentre i rumori di scontri e vetrine rotte arrivavano dalla piazza. Avevo finito di fotografare in quella zona e dovevo recarmi poco lontano, in piazza delle Americhe, proprio a ridosso della zona chiusa, cuore del G8. Gli scontri erano violenti e a un certo punto scattò la caccia ai fotografi e ai cineoperatori che tentavano di mettersi al riparo o stavano vicino alle forze dell’ordine. Molti colleghi furono rapinati dalle attrezzature, alcuni riuscirono a difendersi con non poche botte e danni alle attrezzature. Io viaggiavo leggero, avevo una borsa di tela militare, nulla che facesse pensare a una borsa fotografica. Al collo avevo una Leica che tenevo seminascosta da una sciarpa, la Nikon digitale con cui avevo fatto le foto a Ettore e ai suoi vicini era nella borsa. Andavo spedito cercando di evitare di incrociare gruppi di facinorosi che prima si esaltavano davanti ai fotografi e cineoperatori che li riprendevano a distanza, dopo, per i colleghi che si avvicinavo troppo, botte e rapina erano assicurate.  Improvvisamente tre ragazzi, tutti in nero, due parlavano italiano e l’altro inglese, con un chiaro accento tedesco, mi circondarono. Vogliono la macchina che ho al collo e la borsa. Comincia una concitata trattativa, dico loro che non ero lì per fotografare gli scontri ma non sentono ragione. A quel punto chiedo loro se sono manifestanti per una causa o rapinatori? Perché se sono rapinatori, dico loro, faccio prima a consegnargli il portafogli. Un momento d’impasse, si guardano, non sanno cosa fare. Il tedesco urla camera, camera, a quel punto dico agli italiani “allora siete rapinatori”, uno dei due italiani mi dice che sono combattenti contro il sistema, a quel punto un autoblindo della Polizia ci passa accanto, e nel timore di essere loro l’obbiettivo dell’autoblindo, si allontano correndo. Poco dopo arrivò la notizia dell’uccisione di Carlo Giuliani. Non avevo più voglia di fare quel servizio, sapevo che fino a quel momento mi era andata bene, non sapevo come avrei potuto reagire a un altro tentativo di rapina, perché di rapina si trattava così come le tante che subirono molti colleghi. Tornai a Milano, chiamai il giornale e dissi loro che non avevo fatto il servizio, del resto, con tutto quello che era accaduto non sarebbe mancato loro cosa mettere in pagina. Le storie e le immagini di quelle ore fecero il giro del mondo, i fatti della Diaz, di Piazza Alimonda, vent’anni dopo continuano ad avere narrazioni diverse, di parte, senza un briciolo di obbiettività.

In queste ore si possono leggere molti commenti e ricostruzioni su quei fatti, in televisione un documentario tenta una ricostruzione, in tanti illustri commentatori raccontano le loro versione, in molti tentano di spiegare le ragioni di un fallimento. Sì perché di fallimento dobbiamo parlare. Fallì il governo nell’organizzazione del servizio di Pubblica sicurezza, fallirono le organizzazioni sindacali, fallirono le associazioni No global, i mezzi di comunicazione, le forze di Polizia, anche io, tornai senza foto, gli unici che raggiunsero il loro scopo furono i Black Bloc, un’orda di barbari arrivati da tutta Europa con un solo obbiettivo, mettere a ferro e fuoco la città. 

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Le foto del genocidio abbellite e colorate

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Vice, il gruppo media internazionale costretto a scusarsi e a rimuovere le foto ritoccate delle vittime di Pol Pot

In queste ore in Cambogia sta facendo molto discutere il caso della testata internazionale Vice che ha pubblicato una serie di foto delle vittime del genocidio dei Khmer rossi colorati e alcune apparentemente modificate per aggiungere sorrisi ai loro volti.

La Cambogia ha condannato le immagini dell’artista irlandese Matt Loughrey che ha modificato le foto che ritraggono i prigionieri che sono stati schedati con immagini in bianco e nero, scattate nella famigerata prigione di Tuol Sleng, dove migliaia di persone sono state torturate e interrogate prima di essere inviate ai campi di sterminio di Choeung Ek.

Youk Chhang, il direttore del Centro di documentazione della Cambogia , che conserva un vasto archivio di materiale relativo ai Khmer rossi, lui stesso è un sopravvissuto, ha detto che il suo cuore batteva all’impazzata quando ha visto le versioni ritoccate delle immagini. “Come puoi trasformare l’inferno in felicità?” si è domandato. “È stata una grave ingiustizia alterare un simile pezzo di storia, che è ancora una storia vivente”.

Il Ministero della Cultura e delle Belle Arti ritiene che le immagini modificate “compromettano seriamente la dignità delle vittime” e ha chiesto che vengano rimosse dalla pubblicazione, minacciando azioni legali.

Vice ha detto che in effetti qualcosa nei suoi meccanismi di controllo dei suoi standard editoriali non ha funzionato: “L’articolo includeva fotografie di vittime dei Khmer Rossi che Loughrey ha manipolato oltre la colorazione …

Ci rammarichiamo dell’errore e indagheremo sulle cause che hanno consentito la pubblicazione delle foto senza il necessario controllo “.

Nell’intervista con Vice, ora rimossa, Loughrey ha detto di aver iniziato a lavorare sulle fotografie di Tuol Sleng quando è stato contattato da qualcuno in Cambogia che voleva che tre fotografie – inclusa una foto d’identità scattata all’interno della prigione – venissero restaurare.

Ha poi lavorato su ulteriori immagini delle vittime, aggiungendo che più persone si erano fatte avanti con simili richieste.

Alla domanda sui sorrisi che apparivano sui volti di alcune vittime, Loughrey ha detto che ciò potrebbe essere dovuto al nervosismo e che le donne sembravano sorridere più spesso degli uomini, ma non ha detto di aver aggiunto sorrisi ad alcune delle immagini restaurate.

Tuttavia, sui social media, le persone hanno pubblicato quelle che sembravano essere le immagini originali insieme alle versioni modificate, chiedendosi perché le espressioni degli individui fossero cambiate.

Il Ministero della Cultura e delle Belle Arti ha dichiarato che il progetto di Loughrey, che ha utilizzato le foto delle vittime del genocidio abbellite e colorate, ha anche violato i diritti del museo in quanto legittimo proprietario e custode delle immagini. “Esortiamo i ricercatori, gli artisti e il pubblico a non manipolare alcuna fonte storica per rispettare le vittime”.

Si stima che circa 1,7 milioni di persone, un quarto della popolazione della Cambogia all’epoca, furono uccise tra il 1975 e il 1979 sotto il regime dei Khmer rossi.

Il numero dei morti non è mai stato calcolato con precisione, e le stime dal milione e mezzo ai tre milioni di morti tra il 1975 ed il 1978, pari a circa un quarto della popolazione cambogiana. Questo episodio è spesso citato come esempio della presunta brutalità del Comunismo, tuttavia ci si dimentica di ricordare che furono proprio i comunisti ad essere le vittime del genocidio cambogiano . Pol Pot , infatti, si preoccupò di eliminare tutti coloro che erano stati formati, sia negli studi che nell’arte militare, da parte del Partito Comunista Vietnamita, che aveva fornito loro una solida formazione marxista-leninista.

Le fake news fanno parte ormai del nostro quotidiano tanto da costringere i maggiori sociali e i governi a trattare seriamente l’argomento ma soprattutto a istituire strumenti e meccanismi per contrastarle. Dopo le News adesso tocca anche alle immagini? Photoshop ci ha abituati a incredibili effetti e a sorprendenti montaggi, dove il fantastico diventa verosimile e l’impossibile possibile ma raramente si è cercato di spacciarle per originali e, nei pochi casi in cui si è tentato di farlo sono sempre stati miseramente smascherati.

Istanbul di Alex Webb

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Un simpatico aneddoto mi lega a questo libro. Durante uno dei miei tanti viaggi di lavoro, soggiornando a New York per alcuni giorni, come sempre mi sono recato nella mia libreria preferita, Barnes & Noble in Union Square. In realtà quel luogo è più che una libreria, è un paradiso per gli amanti della carta stampata, dalle riviste, ai libri e a qualunque altra cosa stampata su carta. Ci si può intrattenere per giorni, sfogliando e consultando tutto quello che si desidera: non ci sarà mai nessun commesso che vi guarderà male perché vi siete seduto a terra tra gli scaffali con una pila di libri da sfogliare. E io imparai velocemente, imitando i newyorchesi. Il libro Di Alex Webb, Istanbul – City of hundred names, credo fosse stato appena pubblicato, a penna segno sempre il luogo e la data dell’acquisto, in questo caso è N.Y 7/02/2008. Il libro mi segui per i due mesi di trasferte che seguirono, togliendolo e rimettendolo in valigia per un bel po’ di volte. Arrivò a casa esausto, la copertina reca ancora le macchie di un bar di Bogotá, dove l’avevo mostrato a un amico. Alcune pagine non avevano retto la pressione delle valige zeppe all’inverosimile.

Giunto a casa cercai di rimetterlo in sesto, pulito e attaccate le pagine ballerine l’ho messo in libreria assieme agli altri. Un paio d’anni fa, durante la presentazione di un altro libro, incontrai Alex Webb alla Galleria Leica a Milano, ne approfittai per portare il libro che avevo acquistato a NY più di dieci anni prima per farglielo firmare. Dopo averlo autografato, si tolse gli occhiali, alzò lo sguardo e mi disse “usi sempre così i tuoi libri, come un vassoio?” Ovviamente, sul momento arrossii, superato l’imbarazzo gli raccontai la storia di quell’acquisto che mi aveva seguito per oltre due mesi di lavoro per mezzo mondo e che era stato motivo di incontri, chiacchiere al bar con amici, e lunghe consultazioni nelle sale d’attese degli aeroporti. Fu così felice che mi regalò un altro dei suoi libri, raccomandandomi, questa volta, di farlo viaggiare meno. In effetti da fine 2008 il mercato del lavoro per i fotogiornalisti sapete che fine ha fatto, poche e sparute produzioni.

Il genere “street photography” ha così tanti maestri e stili che non è semplice etichettare o stabilire chi sia il rappresentante più autorevole o chi sia il più importante interprete di questa affascinante declinazione della fotografia contemporanea. Alex Webb non è di immediata lettura, ti costringe a guardare più e più volte le sue immagini per scoprire sempre che la volta precedente qualcosa vi era sfuggito. Forse per questo l’avevo tirato fuori dalla valigia così tante volte. Ancora oggi, quando mi capita di sfogliarlo, mi viene voglia di spolverare la mia Leica e partire… magari per Istanbul, città dove mi sono recato un paio di volte ma non posso dire di aver visitato, troppo grande e troppo complicata da poter cogliere l’essenza in pochi giorni, non a caso, Alex Webb ha cominciato a frequentarla dal 1998, ininterrottamente, per arrivare a pubblicare questa spendita raccolta di scatti.