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Il Futuro delle Democrazie: Una Deriva Verso Tecnocrazie e Oligarchie?

Negli ultimi anni, le democrazie occidentali hanno mostrato segnali di cambiamento che ne stanno alterando la natura. Un processo che, anziché rafforzare i principi cardine della sovranità popolare e della trasparenza istituzionale, sembra avvicinarle progressivamente a forme di tecnocrazia e oligarchia, dove decisioni cruciali sono prese da élite ristrette, talvolta senza un reale controllo democratico. Questo spostamento, spesso giustificato come necessario per affrontare sfide globali complesse, solleva domande fondamentali sul futuro di un modello politico che per decenni è stato il baluardo della libertà.

Trump il finto Robin Hood e la narrazione del potere muscolare

Donald Trump, figura emblematica del populismo contemporaneo, continua a fare notizia con dichiarazioni che oscillano tra il provocatorio e il surreale. Il suo recente proclama di voler “riprendersi il Canale di Panama” e, se necessario, “comprare o occupare con la forza la Groenlandia”, è solo l’ultimo esempio di una retorica che ignora convenzioni internazionali e relazioni diplomatiche consolidate. Eppure, ciò che colpisce non è tanto la gravità delle sue parole, quanto il silenzio o l’ambiguità della reazione occidentale. La propaganda di Trump si fonda sullo slogan di un’“America di nuovo grande”, una promessa che fa sognare – o forse illude, a seconda del punto di vista – milioni di cittadini. Tra questi, molte famiglie che, nel giro di pochi anni, hanno visto la globalizzazione e il crescente divario economico erodere una parte significativa del loro benessere e della loro capacità di spesa. Trump attribuisce la colpa di questa situazione a nemici esterni come la Cina o alla globalizzazione stessa o agli immigrati – probabilmente i veri artefici di una economia forte – piuttosto che al sistema politico dominato dalle lobby. Queste ultime hanno vincolato il Congresso agli interessi delle grandi imprese e della finanza, contribuendo a uno scenario che penalizza i più vulnerabili.

Proprio in queste ore, il rapporto annuale di Oxfam sulla povertà ha lanciato un allarme drammatico: metà della popolazione mondiale vive con meno di 6,85 dollari al giorno, mentre l’1% più ricco detiene il 45% delle ricchezze globali. Eppure, il dato più paradossale è un altro: è proprio tra i ceti più poveri e ai margini della società che la destra conservatrice, tradizionalmente garante dello status quo, raccoglie oggi il maggior consenso. Questo fenomeno appare inspiegabile, ma forse si radica in un’illusione collettiva: votare per lo stesso partito dei “padroni” nella speranza, un giorno, di diventare come loro. 

L’idea di un leader democratico che usa un linguaggio da imperialismo del XIX secolo dovrebbe generare scandalo, ma nel caso di Trump, appare quasi normalizzata. Questa accettazione tacita, o quantomeno riluttanza a criticarlo apertamente, pone un interrogativo spinoso: in cosa differisce una simile postura da quella adottata da autocrati come Vladimir Putin? Se si giudicano le intenzioni e i mezzi, le differenze si assottigliano drammaticamente. Del resto, gli esempi in Europa non mancano. Pensiamo a Viktor Orbán, emblema di una politica autoritaria e illiberale, o alla demagogia della destra britannica che ha condotto il Regno Unito fuori dall’Unione Europea con il miraggio di un futuro migliore. E in Italia? Anche qui non siamo immuni dai campioni delle illusioni, pronti a promettere cancellazioni delle accise, mille euro sul conto corrente di ogni cittadino o addirittura blocchi navali per fermare l’immigrazione. Promesse che suonano accattivanti, ma che si scontrano puntualmente con la realtà.

Oligarchie sotto mentite spoglie

Il problema non riguarda solo Trump. In generale, molte democrazie stanno cedendo terreno a strutture oligarchiche e tecnocratiche. Leader eletti utilizzano il mandato popolare come un lasciapassare per consolidare il potere personale o favorire interessi economici di élite ristrette. La democrazia diventa così un vestito formale che nasconde meccanismi di concentrazione del potere, con scarsa attenzione al bene comune.

Nel caso degli Stati Uniti, il Congresso sembra sempre più subordinato alle dinamiche delle lobby e del denaro, con un sistema politico che premia chi può investire miliardi in campagne elettorali. Questo scenario è replicato, con variazioni locali, in molte altre democrazie occidentali. La rappresentanza popolare rischia di diventare un’illusione, e il divario tra i cittadini e le istituzioni si allarga.

La tecnocrazia come alternativa ambigua

A complicare il quadro è la crescente influenza della tecnocrazia, cioè l’affidamento di decisioni cruciali a esperti, tecnici e burocrati. In un’epoca di crisi globali – dalla pandemia al cambiamento climatico, dalla sicurezza informatica alla regolamentazione delle intelligenze artificiali – il coinvolgimento degli esperti sembra inevitabile. Tuttavia, questa transizione verso la tecnocrazia ha un costo: le decisioni vengono spesso prese in spazi opachi, lontano dal dibattito pubblico, e le priorità della popolazione finiscono per passare in secondo piano.

Un esempio lampante è la gestione della pandemia da COVID-19, dove molte democrazie hanno accettato restrizioni straordinarie alle libertà individuali basandosi su consulenze tecniche. Sebbene giustificate in molti casi, queste misure hanno mostrato quanto velocemente le democrazie possano adattarsi a modelli autoritari, con un consenso che si basa più sulla paura che sulla partecipazione informata.

Il confronto con le autocrazie

Il confronto con i regimi autoritari rende la situazione ancora più ambigua. Putin, Xi Jinping e altri leader autocratici giustificano le loro azioni con argomentazioni non troppo diverse da quelle usate nelle democrazie in crisi: necessità di protezione nazionale, interessi economici strategici, e persino “desiderio popolare”. Quando Trump minaccia di comprare o occupare territori stranieri, il suo linguaggio non è meno imperialista di quello di Putin nei confronti dell’Ucraina. Eppure, il giudizio morale e politico sembra seguire due pesi e due misure, a seconda di chi sia il protagonista della narrazione.

Riflessioni sul futuro

Se le democrazie vogliono preservare la loro essenza, devono affrontare una serie di domande cruciali: qual è il limite tra leadership forte e autoritarismo?  

Quanto potere possono concentrare le élite economiche e tecniche senza erodere la sovranità popolare? 

Come preservare un sistema politico trasparente e rappresentativo in un’era di crisi globali?

La risposta non sarà facile. Ma se la democrazia si allontana dai suoi principi fondanti, rischia di diventare un simulacro di sé stessa, lasciando campo libero a tecnocrati, oligarchi e leader che non si distinguono più dagli autocrati che criticano.

La speranza di Flora

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Storie di Covid.

A Milano cade la prima neve di questo inverno che si annuncia pieno di insidie. Vorremmo poter già essere nell’estate del 2021 ed esserci messi alle spalle il Covid e le sue triste storie.

Storie, come questa che sto per raccontarvi, dalla tragica comparsa del Covid, ne abbiamo udite tante in questi mesi. La pandemia ci ha obbligato ad accettare qualcosa che è umanamente impossibile accettare, immaginate abituarcisi: perdere un congiunto senza riuscire a dargli l’ultimo saluto, l’ultima carezza. Non era un congiunto Flora, la mia vicina di casa che mia figlia aveva da subito chiamato nonna, in mancanze di quelle naturali. Non stava molto bene, da anni combatteva con uno di quei mali che a volte ti porti dietro per anni, altre volte non lasciano scampo. Flora ci aveva convissuto per più di un decennio, e tutto lasciava presagire che sarebbe andata avanti così per un po’. La sua routine degli ultimi anni era fatta di frequenti visite in ospedale per i periodici controlli, le analisi, le terapie che man mano cambiavano con il mutare del male. L’ospedale, fortunatamente, non dista molto da dove viviamo, tanto da poter essere accompagnata da suo marito, ottantenne, ma in discreta salute, anche lui segnato dal male da anni, ma in grado di guidare. Circa un mese fa Flora deve recarsi in ospedale per i controlli e un piccolo intervento di biopsia. Per poter accedere al reparto è sottoposta al tampone: negativa. Si procede con il ricovero e le cure previste. La degenza si protrae un paio di settimane, un po’ più del previsto. Le notizie sullo stato di avanzamento del tumore non sono buone ma nessuno si aspettava diversamente. Anche Flora era consapevole e, nonostante tutto, teneva duro. L’inizio della fine comincia con una telefonata. Poche ore dopo essere stata dimessa dall’ospedale, le comunicano che è risultata positiva al tampone effettuato poco prima di essere dimessa. Un esito, evidentemente, che non hanno atteso prima di lasciarla tornare a casa.Al telefono, oltre all’esito del tampone, indicano le procedure da seguire per il monitoraggio e le cautele verso l’unico convivente, l’anziano marito ottantenne.Flora è asintomatica, nessun segno di febbre o difficoltà respiratoria: sembra un miracolo. Ma dura poco. Tre giorni dopo comincia a respirare male, con molta fatica. Riesce ancora a camminare e a salire sull’ambulanza che la preleva dalla sua abitazione. Il marito la saluta da lontano, non può nemmeno stringerle la mano, i sanitari, vestiti come palombari, la sorreggono e invitano il marito a stare a distanza. Si salutano sbrigativamente, con gli occhi, come a dire ci vediamo dopo.Dall’ospedale le notizie arrivano con il contagocce: situazione stabile. I figli per giorni aspettano le poche comunicazioni che arrivano dal reparto, ogni tanto anche Flora riesce a chiamare suo marito, giusto un saluto, non riesce a parlare a lungo e la telefonata dura poco.I medici non si sbilanciano, aggiornano i figli sullo stato delle cure che non sembrano rispondere adeguatamente. Le telefonate si diradano, Flora è stazionaria ma non migliora. I medici avvertono i figli che in caso di peggioramento non la intuberanno ma cominceranno con la morfina e altri calmati. Il quadro clinico complessivo non lascia margine di miglioramenti. Flora era andata in ospedale, fiduciosa di poter ancora una volta strappare qualche anno, qualche mese a quell’invisibile nemico con cui aveva imparato a convivere e che tutto sommato aveva imparato a domare per così tanti anni ma non aveva fatto i conti con la trappola mortale che nel frattempo era diventato l’ospedale. Flora è morta questa notte nell’ospedale che tante altre volte le aveva dato una speranza in più ma questa volta l’ha tradita.

L’inferno in terra

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Moria Camp, il più grande campo profughi che l’Europa non vuol vedere.

Lesbos, estremo confine orientale delle isole greche, di fronte alla costa turca.

Nessuno è mai tornato dall’inferno o dal purgatorio per raccontare com’è laggiù, abbiamo sempre fatto delle supposizioni, e queste assomigliano molto a questo luogo di sofferenza e senza futuro.

L’isola di Lesbo, dopo il 2016, anno di accordo tra Bruxelles e Ankara, da porta d’ingresso in Europa, si è trasformata in gabbia, dove i richiedenti asilo rimangono bloccati per anni, in un’attesa senza fine.

Il campo di Moira, un’ex base militare greca, allestito per 3200 profughi, oggi sono 13000.

Le condizioni inumane segnano indelebilmente chi è passato per questo campo. Un volontario, sbarcato qui quattro anni prima, è tornato dalla Germania per dare il suo aiuto, “chi più di me può conoscere la sofferenza di questo luogo”. 

Interminabili code per i pasti, ambulatori sovraffollati, servizi igienici insufficienti e spazi vitali ristrettissimi sono spesso la scintilla che accende la violenza tra le diverse etnie che vivono nel campo e scontri con la polizia.

Raccontare questo luogo potrebbe essere un esercizio troppo ovvio, scontato. Siamo abituati, purtroppo, a immagini che descrivono le condizioni dei campi profughi, sparsi un po’ ovunque in questo inizio secolo. Indugiare con la macchina fotografica sul viso di chi scappa da una guerra, di chi è in difficolta, mi ha sempre messo a disagio, forse per questo ho seguito pochi conflitti. 

Ma quello che sta accadendo a poche miglia dalle spiagge greche, affollate di bagnanti di tutta Europa è l’angolo buio della coscienza europea e va raccontato. L’ho fatto in maniera diversa, non ho ritratto visi emaciati e sguardi persi nel vuoto, bambini mal vestiti che fissano la camera come rapiti dall’alieno che sta dietro la macchina fotografica.

Ho rivolto l’obiettivo altrove, nella discarica di giubbotti salvagente indossati per arrivare sull’isola. Sono una montagna, impossibile dire quanti, qualcuno ha detto cinquantamila, chi addirittura parla di centomila. Sono tanti, troppi e forse questo è l’unico dato per capire la dimensione di questa tragedia.

Scarpe, bottiglie, vestiti, borse, biberon, e anche una protesi, confusi in un unico ammasso, in un’unica montagna di plastica informe. Tutti indizi di un’umanità in fuga, in corsa verso un destino incerto che si lascia dietro quello che non serve più. 

Cittadino di serie B

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La difficile integrazione dei nuovi italiani

di Abi Kobe Zar

A fine luglio mio fratello mi dice che ha trovato una macchina da comprare, e che ha bisogno che porti il contratto di lavoro e l’ultima mia busta paga per fargli da garante. Gli hanno chiesto solo quello, ma io, previdente, mi porto dietro il passaporto (italiano) e codice fiscale. 

L’agente della concessionaria prende tutto e mi dice la finanziaria ha bisogno del codice fiscale plastificato e della tessera sanitaria. Questo non era stato detto prima. 

All’indomani dicono a mio fratello che la finanziaria non accetta il mio passaporto, ma vuole obbligatoriamente la carta d’identità. Per me che giro il mondo la carta d’identità è, a tutti gli effetti, carta straccia. Ho un passaporto con ben due visti lavorativi per USA e che mi fa arrivare ovunque nel mondo, ma per la finanziaria di Modena, che deve prestare 6 mila euro a mio fratello, quel passaporto non vale nulla in confronto alla carta d’identità. Capite? 

Sono contrariato, ma porto pazienza e mi reco in comune. Mi rimbalzano tra loro e i carabinieri trattandomi da idiota (ed ho già raccontato di questo) e ci metto 3 giorni per farla al costo di 22,5 euro. 

Ricordo che la carta d’identità contiene l’indirizzo. 

Dalla concessionaria arriva la richiesta che, oltre a tutti i documenti, dobbiamo portare un certificato di residenza a testa con marca da bollo da 16 euro. L’ennesima cosa che salta fuori all’ultimo. 

A me sembra una palese presa per il c#lo, e dico a mio fratello che se si fosse chiamato Mario Rossi a quest’ora non eravamo qui a dannarci con tutti questi documenti. 

Facciamo pure quelli e la settimana dopo veniamo chiamati per andare a firmare. Sembra quasi tutto fatto ma c’è un piccolo problema, di nuovo. 

Mio fratello ha 24 anni, ed è in Italia da quando ne ha 6. Parla italiano, impreca in italiano e mangia italiano. Lavora e paga le tasse allo stato italiano.

Sono 4 anni e mezzo che ha fatto la richiesta di cittadinanza e la sta ancora aspettando. 

QUATTRO ANNI E MEZZO. 

In famiglia è l’unico straniero. 

La finanziaria esige il suo passaporto perché è prassi per i cittadini stranieri. Lo è ora dopo un mese che trattano la pratica? 

Poi il mio italiano non valeva, ma ora vogliono il suo ghanese? 

Lui il passaporto non ce l’ha perché è scaduto, e non essendo mai uscito dall’Italia, non ha mai avuto la necessità di rinnovarlo, soprattutto perché sa che a breve (si spera), potrà fare quello italiano. 

Niente, la finanziaria non chiude la pratica finché lui non porta il passaporto scaduto, e voglio ricordare che loro hanno tutti i documenti di riconoscimento esistenti.

Permesso di soggiorno, tessera sanitaria, carta d’identità, certificato di residenza e codice fiscale. 

Hanno tutto, e dopo più di un mese di avanti e indietro e di disagi, all’ultimo tirano fuori che il documento irrinunciabile è un passaporto scaduto senza alcuna validità legale. 

Io ero talmente esasperato che ho detto a mio fratello di cercarsi un’altra macchina da un’altra concessionaria. In due giorni ne ha trovato una uguale, gli ho dato i soldi di tasca mia, e il giorno dopo aveva l’autovettura. 

Ora, quando dite che la riforma della cittadinanza è inutile, che non bisogna farla e che tanto la legge attuale funziona benissimo per chi state parlando esattamente? Per voi che vi chiamate Mario Rossi e Anna Verdi? O siete portavoce di chi vive questi disagi quotidianamente?

Bisogna essere egoisti, ed anche un po’ str#nzi, per impedire con così tanta forza un diritto altrui che a voi non tocca minimamente. 

Per più di un milione di persone averla farebbe una differenza che non immaginate, ma a voi cosa verrebbe a mancare esattamente? Che pericolo vi crea? Che cosa vi toglie? 

Non ci vogliono soldi, né risorse. Non sarà una distrazione rispetto ad altre leggi o riforme.

Ci sono cittadini a cui lo Stato ha stampato in faccia il bollino di Serie B, e questa è un’enorme ed insensata ingiustizia.

Disconnettersi

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Avete mai avuto la tentazione di disconnettervi? Anche solo per un giorno o per qualche ora? 

Vi siete chiesti se siete in grado, o se ne avete la forza?  Disconnettersi da tutto e da tutti? Lasciare che le notizie non ci inseguano più, che i social siano all’oscuro su quello che stiamo pensando, che stiamo facendo? Lasciare muto WhatsApp, non rivolgere nessun cinguettio a Twitter e mandare Instagram in bianco e tenere le foto solo per i nostri ricordi?

Probabilmente sì, almeno lo spero. Ma quali potrebbero essere gli effetti, e perché ci siamo ridotti così?

Dal rapporto ‘Net Children Go Mobile’ realizzato dall’Università Cattolica di Milano emerge che il 79% dei ragazzi tra 9 e 16 anni dice di sentirsi in dovere di essere sempre raggiungibile, il 52% di avere un forte bisogno di controllare sempre il cellulare e il 43% si sente a disagio perché non può controllare il cellulare in caso di mancanza di campo o di batteria scarica.

Anche se questi dati fanno riferimento a una fascia ben precisa della popolazione, quella adolescenziale, non è molto diversa la situazione tra gli adulti. La necessità di sentirsi sempre connessi, raggiungibili è virale. Neanche quando si va in vacanza, momento deputato al relax e al distacco dalle attività che ci provocano stress, riusciamo a fare a meno della connessione. Una delle prime cose che chiediamo all’Hotel dove soggiorneremo è il WiFi.  

Ma perché ci siamo ridotti così?

Oggi il modello vigente è quello della produttività alla velocità della luce. La fibra è la cartina di tornasole, la sua diffusione indica l’indice di modernità di un paese. Tutto deve essere veloce, connesso e condiviso. Fuori da questi canoni sembra non poter esserci sviluppo, modernità, civiltà. 

La connessione diventa il fulcro di tutte le possibili interazioni e comunicazioni con la nostra comunità. La relazione con il cellulare si sostituisce a quelle reali, il virtuale diventa il luogo delle relazioni verosimili. Si ha paura di essere soli senza la connessione per poi accorgersi che la vera solitudine è rappresentata dall’incapacità di intrattenere una vera relazione umana basata sul contatto, sull’interazione e sulla sana comunicazione a due. Connessi con tutti, in relazione con nessuno. 

Omicidio di Stato

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Fanno più paura i conti o le intemperanza militari del presidente turco  Erdogan?

Gli addetti ai lavori, gli analisti economici e militari sanno che le minacce e l’attivismo militare in Mediterraneo di Recep Tayyip Erdogan, sono ben poca cosa rispetto al reale pericolo che la Turchia rappresenta oggi per l’Europa.  Le banche europee hanno molto da perdere se la situazione dovesse mettersi male con il presidente turco, l’esposizione è tale da poter minacciare la stabilità del settore bancario continentale.

L’agenzia di rating Moody’s ha lanciato l’allarme, le difficoltà economiche, endogene al Paese, aggravate dalla crisi mondiale per gli effetti della pandemia, potrebbero diventare un serio problema per l’Occidente, che con qualche riluttanza pensa a sanzioni economiche contro Ankara per le ripetute violazioni dei diritti umani.

Si ripropone il solito dilemma: si possono barattare i diritti umani in cambio della stabilità del sistema finanziario?

L’Occidente, con tedeschi e francesi in prima linea, con qualche sussulto e con parole di sdegno, hanno condannato l’ennesimo attivista morto nelle carceri turche. Dopo Ibrahim Gokcek, 39 anni, morto dopo 323 giorni di sciopero della fame, Helin Bolek, 288 giorni a digiuno arrivata a pesare 33 chili e Mustafa Kocak, 297 giorni senza cibo in solidarietà con la band Group Yorum, entrambi non avevano neanche trent’anni, a perdere la vita nello stesso tragico modo

l’avvocato Ebru Timtik, spirata il 27 agosto, dopo 238 giorni di sofferenze e privazioni.

Dallo scorso gennaio aveva deciso di avviare la drammatica forma di protesta per rivendicare il diritto a un processo equo e per chiedere condizioni di detenzioni dignitose. La Timtik era stata condannata a più di 13 anni di carcere nel 2019.

Senza ricorrere alle scene di Fuga di mezzanotte, la pellicola del ’78 di Alan Parker che denunciava le condizioni delle carceri turche, è facile comprendere come le privazioni per lo sciopero della fame e le condizioni di vita nelle fatiscenti celle turche, abbiano piegato i corpi di queste giovani donne e uomini che hanno osato sfidare il Sultano, ma queste morti non hanno piegato la volontà di una parte della società turca di riportare il Paese sui binari pre Erdogan, che ambiva a far parte dell’EU a tutti gli effetti.

L’Occidente, la Comunità Europea in primis, l’America di Trump si è completamente disinteressata, ha la memoria corta e sta rifacendo gli stessi errori fatti con il dittatore iracheno Saddam. Usato per anni in funzione anti iraniana, scaricato quando diventò ingombrante e poco gestibile. Ma questa volta la partita non è così semplice.

Tra aiuti, sussidi e incentivi per bloccare i flussi dei profughi siriani, l’Europa da oltre vent’anni ha versato e continua a versare un fiume di denaro. Tra il 2002 e il 2006 l’EU ha spedito nelle casse turche 1,3 miliardi, diventati rapidamente 4,8 tra il 2007 e il 2013 e 4,5 miliardi tra il 2014 e il 2020. A questi poi vanno aggiunti i soldi per trattenere il flusso di profughi che, con sapiente maestria è stato aperto e chiuso per fare pressione e in base all’umore del momento e alle necessità politiche del presidente turco.

Un’enorme quantità di denaro, che doveva servire per adeguare il sistema paese a quello europeo, per rafforzare la democrazia e avvicinare il grande Paese a cavallo tra Europa e Asia agli standard richiesti per accedere al club europeo, hanno, invece, contribuito a rafforzare la politica ora aggressiva ora amichevole che il presidente Erdogan esercita nei confronti anche degli stessi alleati europei e della NATO.

I leader europei si sono infilati in un vicolo cieco: sospendere i finanziamenti provocherebbe una marea di profughi, oggi rinchiusi e mantenuti in campi che l’Europa preferisce non vedere. Continuare a foraggiare Erdogan, per non destabilizzare il Paese e non rischiare i miliardi di dollari che le banche europee hanno investito in Turchia, alimenta le aspirazioni nazionalistiche dell’ex sindaco di Istanbul. Intanto gli omicidi di stato tentano di piegare l’opposizione interna.

Freelance- Redefine The Concept

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Nella cassetta degli attrezzi di un freelance ci sono molti attrezzi che tante altre professioni ignorano o conosco appena.

Ma chi è un freelance?

Già, ottima domanda. Semplificando, diciamo tutti quelli che non hanno un contratto di lavoro, in altre parole i non assunti.

Il termine freelance è stato utilizzato soprattutto nell’ambito giornalistico, e sono indicati con questo termine giornalisti, fotografi, cameramen e “stringer” – altro termine anglosassone che indica un aiuto sul campo, quasi sempre un giornalista o fotografo del luogo – che non hanno un rapporto di dipendenza stabile con un editore. A volte godono di un contratto di collaborazione che li lega in maniera esclusiva ma per la stragrande maggioranza dei freelance il “modus operanti” è quello dell'”assignment” dell’incarico.

E cosa succede se per un po’ il telefono non squilla? Ecco che bisogna ricorrere alla cassetta degli attrezzi, diamoci un occhio.

Di rado a un apprezzato medico, ingegnere o avvocato è richiesta nella loro professione l’andatura da velista: strambare e virare di continuo, per andare in cerca anche del più tenue refolo d’aria, in questo caso il vento della professione. Imparare a cambiare continuamente direzione è la prima virtù che un freelance deve affinare se vuole arrivare alla meta.

Quindi, prima regola, flessibilità.

La meta è solo una tappa. Avete piazzato il vostro primo lavoro e adesso? Bisogna ricominciare tutto da capo: trovare l’idea, contattare i possibili acquirenti, andare, produrre portare in giro il lavoro…

Questa è la vita da freelance? Si! Se siete degli ansiosi, degli insicuri e amate pianificare il vostro futuro, le vostre spese e anche le vacanze per l’estate prossima, sicuramente non siete dei freelance e se state pensando di diventarlo, vi do un consiglio gratis: “non fatelo”. Se invece credete ciecamente che il vostro lavoro merita di avere una chance e siete disposti a saltare le vacanze pur di realizzare il vostro sogno, scrivere il vostro reportage e realizzare le foto che avete in mente, allora­­­ da qualche parte, dentro di voi, si nasconde un freelance.

Se siete arrivati fin qui e volete conoscere cosa c’è nella mia cassetta degli attrezzi, seguitemi e vi rivelerò perché un paio di vecchie Adidas country sono il primo tools della mia cassetta degli attrezzi.

Alla prossima

La battaglia di Milano

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Il tempo è l’unica arma che abbiamo per sconfiggere il virus? Quale strategia e quali armi abbiamo per contrastarlo, per stanarlo e renderlo inoffensivo? In questo momento in centinai di laboratori di ricerca in tutto il mondo è in atto una maratona di scienziati e ricercatori per mettere a punto gli strumenti diagnostici per una veloce diagnosi per poi arrivare al vaccino.

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