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Auguri, ne abbiamo proprio bisogno.

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Un Paese ostaggio di una classe politica arruffona e improvvisata.

Quasi scontato dire tanto rumore per nulla ma c’era davvero qualcuno che credeva alle minacce di Renzi e al suo sparuto numero di ministri? A parte il resoconto di qualche cronista politico e a fantasiosi retroscena – ormai l’unica forma autorevole del giornalismo italiano – nessuno ha mai creduto alla fine del governo Conte, neanche Renzi e il suo entourage. Quel giorno, se dovesse arrivare prematuramente rispetto alla naturale conclusione della legislatura, per molti parlamentari potrebbe rappresentare la conclusione della carriera parlamentare e allora, statene certi, abbaiare alla luna, per adesso, è l’unico lusso che si possono permettere.

Ma il Paese può permettersi questa classe politica?

Il racconto di come è andato l’incontro tra il presidente Conte e il drappello renziano sembra scritto da Age & Scarpelli, autori delle più esilaranti commedie italiane. Come in una scenetta di Totò e Peppino, a un certo punto del vertice, Conte ha sbottato: “Ma chi ha detto che volevamo fare un emendamento alla legge di Bilancio?”. E la Boschi risponde: “Voi, all’articolo 184 della legge di Bilancio”. Conte ribatte: impossibile. La Bellanova chiede: “Ma ci prendete in giro?”. A quel punto, anche Riccardo Fraccaro e Roberto Gualteri, rispettivamente sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e ministro dell’Economia e delle Finanze, avrebbero fatto notare la cosa a Conte.

“Ma Gualtieri l’ha letto il Recovery Plan? “, durante l’incontro, durato oltre due ore, con la delegazione di Italia Viva, è trapelato che neanche il ministro dell’Economia ha letto il piano nel dettaglio. 

Insomma, ci sarebbe da ridere a crepapelle se fosse che qui c’è in ballo il piano di aiuto economico più importante della storia repubblicana italiana. 

Intanto ogni giorno si apprende di un nuovo bonus, dopo bici, monopattini e vacanze, in queste ore si è aggiunto quello sull’arredamento e sui rubinetti dell’acqua – non è una battuta di spirito –. E poi ci lamentiamo perché in Europa ci guardano con sospetto quando si parla di aiuti economici e sforamento del patto di stabilità. 

Purtroppo, a voler cercare qualcosa di buono nell’opposizione, non c’è da stare tanto allegri. Salvini ha annunciato che passare il Natale con i clochard, la Meloni ha dato idea di come affronterebbe l’emergenza Covid e la necessità di far andare avanti l’economia: apertura dei centri commerciali per fascia di età. Insomma dalle 9 alle 10 i trentenni, dopo i quarantenni, nel pomeriggio i nonni.

Siamo un Paese fantasioso, pieno d’immaginazione, di splendide idee e una grande dose di fortuna e non ci resta che sperare sulla buona stella che tante altre volte ci ha salvato dalla sciagurata tendenza a farci del male da soli.

Chiaro come in una giornata d’agosto su un ghiacciaio

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Ci sono cose nella vita che uno non riesce a spiegarsi, altre, invece, sono chiare come in una giornata d’agosto su un ghiacciaio. “Papà, mi regali la moto?” È la domanda che molti genitori temono. Anche se entrambi, marito e moglie, un po’ per necessità un po’ per passione, tutti i giorni saltano in sella alla moto e allo scoter per andare in ufficio, la moto per i figli è qualcosa di destabilizzante. Speri sempre che questa richiesta non arrivi mai o il più tardi possibile, almeno quando hanno compiuto la maggior età e confidi di poterli distrarre dalle due con le quattro ruote. La prima volta l’ha chiesta non appena compiuto i quattordici anni, la sua compagnetta delle elementari aveva fatto da apripista. Prendiamo tempo. Spieghiamo che bisogna studiare e prendere la patente e, come da tradizione, né papà né mamma hanno fatto la patente in autoscuola, “se sei capace preparati e fai gli esami da esterna”.

Per il momento la cosa sembra rimandata. “Papà, si forse è meglio fare gli esami direttamente per il 125, nel frattempo comincio a esercitarmi con i quiz”. Bene, quindi respiriamo per un po’. “sai papà, preferisco attendere e prendere direttamente la patente per il 125 perché preferisco un 125 invece del cinquantino”. Non era quello che intendevo, ma va bene, qualche mese di respiro. Il giorno del sedicesimo compleanno arriva e, come solo una ragazzina di sedici anni sa essere, determinata e ruffiana, ecco pronti e scaricati dal web tutti i moduli e i bollettini da pagare per il rilascio del foglio rosa. Tra una lezione a distanza di italiano e matematica, un occhio al libro dei quiz: “papà cosa vuol dire questo segnale?” ma sei a scuola, devi seguire le lezioni, “si ma sta interrogando e io sono stata già interrogata, ho la media dell’otto”. Tento di allontanare il più possibile il giorno dell’esame, ma sono l’unico in famiglia e remare controcorrente alla fine ci si sfianca. Ok Marghe, fai pure la patente direttamente per il 125 ma comincerai con un cinquantino, non appena avrai dimestichezza passerai al 125, Ok? “Perfetto, papà, sì penso sia una buona idea anche perché voglio prima provare una moto da cross e poi vorrei una stradale?

Una moto da cross? Un tuffo al cuore, una fitta mi stringe lo stomaco. Marghe, io pensavo tipo una vespa o qualche altro scooter… qualcosa per una ragazzina “papà, a me non piacciono gli scooter, voglio una moto.” Non potevo rimproverarle nulla, era chiaro come in una giornata di agosto su un ghiacciaio, non potevo tentare di convincerla, sarebbe stato contro natura. E dimmi, hai qualche idea di che moto da cross vorresti? “Sì, non so come si chiama il modello ma ti faccio vedere le foto che ho scaricato da internet, queste sono proprio fighe, ti giro le foto su WhatsApp.” In rapida successione la clessidra scarica le foto sul mio cellulare, uno, due, tre, otto, dieci, dodici… Apro la prima. Un groppo alla gola mi toglie il fiato, il battito accelera, i timpani si trasformano in due sensibilissimi fonendoscopi, riesco a sentire ogni singolo battito. Scorro velocemente le foto, non so se sperare che si tratti di una scelta casuale o magari è una tra tante. No! Non ci sono dubbi, la scelta è chiara e trasparente, come in una giornata d’agosto su un ghiacciaio, mia figlia vuole la stessa moto che quarant’anni prima avevo sognato e guidato, in prestito da un amico: Caballero Fantic Motor 50cc Regolarità Casa. E adesso eccomi qua, come un ragazzino a cercare sul web come sistemare il carburatore, come cambiare la frizione, che gomme montare… come quarant’anni fa.

Natale in Libia

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Che fine hanno fatto i 18 pescatori di Mazzara del Vallo?

Natale in Libia non è il titolo del cinepanettone di quest’anno ma quello che potrebbe accadere ai pescatori sequestrati in Libia e ancora nelle celle del regime di Haftar. Se, paradossalmente, si potesse scegliere quando imbattersi in una disgrazia, i 18 pescatori siciliani, sequestrati dal generale Haftar, hanno scelto proprio il momento peggiore. Certo che non esiste il momento migliore per farsi sequestrare ma il destino a volte rende ancora più complicato quello che è già complicato in partenza. Da oltre tre mesi, 90 lunghi giorni e altrettante interminabili notti, le famiglie dei 18 marittimi di Mazara del Vallo attendono di poter riabbracciare i proprio cari, di riaverli a casa, di tornare alla normalità. Da giorni una tenda staziona davanti a Montecitorio, i famigliari di alcuni di loro, con la loro silenziosa presenza, ricordano al governo la loro tragedia e che andranno via solo quando potranno riabbracciare i loro uomini. 

La storia attorno al loro sequestro sta assumendo i contorni di una faccenda molto più ingarbugliata e non di facile lettura per un Paese ma, soprattutto, per un Governo distratto da problemi più pressanti ed evidentemente meno coinvolgenti di quelli che riguardano le famiglie di 18 lavoratori, sequestrati in acque internazionali assieme alle loro imbarcazioni. La pandemia, con i suoi DPCM, i litigi su come spendere il fiume di denaro del Recovey Fund, i problemi ideologici sul Mes, un ministro degli Esteri più intendo a gestire il doppio mandato e a fronteggiare i mal di pancia di un Movimento che si sta sciogliendo al pallido sole dell’Estate di San Martino, non lasciano ben sperare sui tempi del ritorno a casa dei 18 marinai.

Il generale Haftar

Per dirla tutta, neanche tra i banchi dell’opposizione pare esserci molta attenzione sulla sorte dei malcapitati pescatori di Mazara.

Giorgia Meloni, la più attiva quando c’è da denunciare inadempienze del governo o molto sollecita nel dispensare consigli su come bloccare gli sbarchi, con un massiccio blocco navale, in queste ore è molto occupata a denunciare l’uso improprio della scorta del premier che, colpevolmente, secondo l’opposizione, è intervenuta a proteggere la compagna del Presidente del Consiglio dall’insistenza degli inviati di Striscia. La Meloni, in un video direttamente dall’aula di Montecitorio, denuncia una questione di Stato di diritto. Per molto meno la scorta di Salvini impedì il lavoro di altri giornalisti durante le esibizioni al Papete dell’ex ministro degli Interni. Sul diritto di quelle 18 famiglie a riabbracciare i loro congiunti non una parola. Molto fredda anche la partecipazione dei social e delle Ong che in questi anni si sono mobilitati per i diritti degli immigrati. In fondo è lo stesso mare e lo stesso comune nemico. 

In queste ultime ore un evento, non collegato direttamente alla faccenda dei marinai trattenuti in Libia ma riconducibile ai delicati rapporti di forza e di potere nell’area, ci dà la misura di come il nostro Paese spesso soffra in politica estera un senso di minus habens. Ricordate il caso dei Marò e del disastro della nostra politica estera che ci coprì di ridicolo?

Tornando all’evento di queste ore, l’Egitto ha annunciato che non ci sono elementi sufficienti per continuare le indagini per individuare gli assassini di Giulio Reggeni e, pertanto, non collaborerà con la procura romana. Un bel ceffone per la nostra diplomazia. L’Egitto è uno dei fiancheggiatori dell’ex generale di Gheddafi, Khalifa Haftar, oltre a una altra mezza dozzina di paesi e, fra questi, pensate un po’, ci sono anche i francesi. I cugini d’oltralpe non hanno mai fatto mistero della voglia di scalzarci dalla Libia, i contratti dell’Eni sono nel mirino dei francesi da sempre, e la spallata al regime di Gheddafi non era certo un sostegno alla Primavera araba ma una veloce scorciatoia per mettere le mani sul petrolio libico.

La diplomazia italiana, da sempre e forse giustamente, ha preferito pagare per il rilascio dei suoi cittadini. In queste settimane i funzionari della Farnesina invitano alla cautela e al silenzio, per non compromettere le trattative. Chiedere il silenzio per non compromettere le trattative potrebbe avere senso quando ancora non si conosce l’identità dei rapitori, dove tengono i prigionieri e se sono ancora in vita. Ma qui conosciamo nomi, cognomi e indirizzo dei carcerieri e dove sono trattenuti i nostri connazionali, illegalmente, da un governo non riconosciuto da molte delle istituzioni internazionali. Dopo una prima richiesta dei libici, fatta circolare informalmente, circa uno scambio dei marinai siciliani con quattro scafisti libici, arrestati in Sicilia cinque anni fa, condannati a 30 anni ciascuno in primo e in secondo grado a Catania per la morte in mare di 49 migranti nel 2015, il generale Haftar deve essersi reso conto che un governo sovrano e legittimo non fa ostaggi da scambiare. Ecco allora il cambio di strategia, incriminare i pescatori per traffico di stupefacenti.

Petrolio, gamberi rossi e diplomazia è l’intrigata sceneggiatura che vede potagonisti una dozzina di paesi coinvolti in una grande partita di Risiko, dove si giocano spregiudicati assetti strategici ed economici di un enorme area che va dalla Tunisia alle coste di Grecia e Turchia, e gli interessi degli italiani sono in balia della sorte e di qualche oscuro consigliere diplomatico. 

Al generale Haftar la sorte dei 18 marinai della Medinea e della Antartide deve essergli sembrata un ottimo poker d’assi, senza mettere in conto che qualcuno potrebbe avere in mano una scala reale.

Haftar sa che una mossa sbagliata potrebbe procurargli le ire di Russia ed Egitto e che potrebbero scaricarlo da un momento all’altro, mentre la Francia potrebbe cercare di ingraziarsi i cugini italiani dopo anni di contrapposizione in Libia ma per il resto c’è il fondato rischio che i marinai di Mazzara del Vallo rischiano di passare il Natale forzatamente distanziati dalle loro famiglie al suono dei muezzin del generale Haftar.

La speranza di Flora

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Storie di Covid.

A Milano cade la prima neve di questo inverno che si annuncia pieno di insidie. Vorremmo poter già essere nell’estate del 2021 ed esserci messi alle spalle il Covid e le sue triste storie.

Storie, come questa che sto per raccontarvi, dalla tragica comparsa del Covid, ne abbiamo udite tante in questi mesi. La pandemia ci ha obbligato ad accettare qualcosa che è umanamente impossibile accettare, immaginate abituarcisi: perdere un congiunto senza riuscire a dargli l’ultimo saluto, l’ultima carezza. Non era un congiunto Flora, la mia vicina di casa che mia figlia aveva da subito chiamato nonna, in mancanze di quelle naturali. Non stava molto bene, da anni combatteva con uno di quei mali che a volte ti porti dietro per anni, altre volte non lasciano scampo. Flora ci aveva convissuto per più di un decennio, e tutto lasciava presagire che sarebbe andata avanti così per un po’. La sua routine degli ultimi anni era fatta di frequenti visite in ospedale per i periodici controlli, le analisi, le terapie che man mano cambiavano con il mutare del male. L’ospedale, fortunatamente, non dista molto da dove viviamo, tanto da poter essere accompagnata da suo marito, ottantenne, ma in discreta salute, anche lui segnato dal male da anni, ma in grado di guidare. Circa un mese fa Flora deve recarsi in ospedale per i controlli e un piccolo intervento di biopsia. Per poter accedere al reparto è sottoposta al tampone: negativa. Si procede con il ricovero e le cure previste. La degenza si protrae un paio di settimane, un po’ più del previsto. Le notizie sullo stato di avanzamento del tumore non sono buone ma nessuno si aspettava diversamente. Anche Flora era consapevole e, nonostante tutto, teneva duro. L’inizio della fine comincia con una telefonata. Poche ore dopo essere stata dimessa dall’ospedale, le comunicano che è risultata positiva al tampone effettuato poco prima di essere dimessa. Un esito, evidentemente, che non hanno atteso prima di lasciarla tornare a casa.Al telefono, oltre all’esito del tampone, indicano le procedure da seguire per il monitoraggio e le cautele verso l’unico convivente, l’anziano marito ottantenne.Flora è asintomatica, nessun segno di febbre o difficoltà respiratoria: sembra un miracolo. Ma dura poco. Tre giorni dopo comincia a respirare male, con molta fatica. Riesce ancora a camminare e a salire sull’ambulanza che la preleva dalla sua abitazione. Il marito la saluta da lontano, non può nemmeno stringerle la mano, i sanitari, vestiti come palombari, la sorreggono e invitano il marito a stare a distanza. Si salutano sbrigativamente, con gli occhi, come a dire ci vediamo dopo.Dall’ospedale le notizie arrivano con il contagocce: situazione stabile. I figli per giorni aspettano le poche comunicazioni che arrivano dal reparto, ogni tanto anche Flora riesce a chiamare suo marito, giusto un saluto, non riesce a parlare a lungo e la telefonata dura poco.I medici non si sbilanciano, aggiornano i figli sullo stato delle cure che non sembrano rispondere adeguatamente. Le telefonate si diradano, Flora è stazionaria ma non migliora. I medici avvertono i figli che in caso di peggioramento non la intuberanno ma cominceranno con la morfina e altri calmati. Il quadro clinico complessivo non lascia margine di miglioramenti. Flora era andata in ospedale, fiduciosa di poter ancora una volta strappare qualche anno, qualche mese a quell’invisibile nemico con cui aveva imparato a convivere e che tutto sommato aveva imparato a domare per così tanti anni ma non aveva fatto i conti con la trappola mortale che nel frattempo era diventato l’ospedale. Flora è morta questa notte nell’ospedale che tante altre volte le aveva dato una speranza in più ma questa volta l’ha tradita.

L’inferno in terra

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Moria Camp, il più grande campo profughi che l’Europa non vuol vedere.

Lesbos, estremo confine orientale delle isole greche, di fronte alla costa turca.

Nessuno è mai tornato dall’inferno o dal purgatorio per raccontare com’è laggiù, abbiamo sempre fatto delle supposizioni, e queste assomigliano molto a questo luogo di sofferenza e senza futuro.

L’isola di Lesbo, dopo il 2016, anno di accordo tra Bruxelles e Ankara, da porta d’ingresso in Europa, si è trasformata in gabbia, dove i richiedenti asilo rimangono bloccati per anni, in un’attesa senza fine.

Il campo di Moira, un’ex base militare greca, allestito per 3200 profughi, oggi sono 13000.

Le condizioni inumane segnano indelebilmente chi è passato per questo campo. Un volontario, sbarcato qui quattro anni prima, è tornato dalla Germania per dare il suo aiuto, “chi più di me può conoscere la sofferenza di questo luogo”. 

Interminabili code per i pasti, ambulatori sovraffollati, servizi igienici insufficienti e spazi vitali ristrettissimi sono spesso la scintilla che accende la violenza tra le diverse etnie che vivono nel campo e scontri con la polizia.

Raccontare questo luogo potrebbe essere un esercizio troppo ovvio, scontato. Siamo abituati, purtroppo, a immagini che descrivono le condizioni dei campi profughi, sparsi un po’ ovunque in questo inizio secolo. Indugiare con la macchina fotografica sul viso di chi scappa da una guerra, di chi è in difficolta, mi ha sempre messo a disagio, forse per questo ho seguito pochi conflitti. 

Ma quello che sta accadendo a poche miglia dalle spiagge greche, affollate di bagnanti di tutta Europa è l’angolo buio della coscienza europea e va raccontato. L’ho fatto in maniera diversa, non ho ritratto visi emaciati e sguardi persi nel vuoto, bambini mal vestiti che fissano la camera come rapiti dall’alieno che sta dietro la macchina fotografica.

Ho rivolto l’obiettivo altrove, nella discarica di giubbotti salvagente indossati per arrivare sull’isola. Sono una montagna, impossibile dire quanti, qualcuno ha detto cinquantamila, chi addirittura parla di centomila. Sono tanti, troppi e forse questo è l’unico dato per capire la dimensione di questa tragedia.

Scarpe, bottiglie, vestiti, borse, biberon, e anche una protesi, confusi in un unico ammasso, in un’unica montagna di plastica informe. Tutti indizi di un’umanità in fuga, in corsa verso un destino incerto che si lascia dietro quello che non serve più. 

Cittadino di serie B

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La difficile integrazione dei nuovi italiani

di Abi Kobe Zar

A fine luglio mio fratello mi dice che ha trovato una macchina da comprare, e che ha bisogno che porti il contratto di lavoro e l’ultima mia busta paga per fargli da garante. Gli hanno chiesto solo quello, ma io, previdente, mi porto dietro il passaporto (italiano) e codice fiscale. 

L’agente della concessionaria prende tutto e mi dice la finanziaria ha bisogno del codice fiscale plastificato e della tessera sanitaria. Questo non era stato detto prima. 

All’indomani dicono a mio fratello che la finanziaria non accetta il mio passaporto, ma vuole obbligatoriamente la carta d’identità. Per me che giro il mondo la carta d’identità è, a tutti gli effetti, carta straccia. Ho un passaporto con ben due visti lavorativi per USA e che mi fa arrivare ovunque nel mondo, ma per la finanziaria di Modena, che deve prestare 6 mila euro a mio fratello, quel passaporto non vale nulla in confronto alla carta d’identità. Capite? 

Sono contrariato, ma porto pazienza e mi reco in comune. Mi rimbalzano tra loro e i carabinieri trattandomi da idiota (ed ho già raccontato di questo) e ci metto 3 giorni per farla al costo di 22,5 euro. 

Ricordo che la carta d’identità contiene l’indirizzo. 

Dalla concessionaria arriva la richiesta che, oltre a tutti i documenti, dobbiamo portare un certificato di residenza a testa con marca da bollo da 16 euro. L’ennesima cosa che salta fuori all’ultimo. 

A me sembra una palese presa per il c#lo, e dico a mio fratello che se si fosse chiamato Mario Rossi a quest’ora non eravamo qui a dannarci con tutti questi documenti. 

Facciamo pure quelli e la settimana dopo veniamo chiamati per andare a firmare. Sembra quasi tutto fatto ma c’è un piccolo problema, di nuovo. 

Mio fratello ha 24 anni, ed è in Italia da quando ne ha 6. Parla italiano, impreca in italiano e mangia italiano. Lavora e paga le tasse allo stato italiano.

Sono 4 anni e mezzo che ha fatto la richiesta di cittadinanza e la sta ancora aspettando. 

QUATTRO ANNI E MEZZO. 

In famiglia è l’unico straniero. 

La finanziaria esige il suo passaporto perché è prassi per i cittadini stranieri. Lo è ora dopo un mese che trattano la pratica? 

Poi il mio italiano non valeva, ma ora vogliono il suo ghanese? 

Lui il passaporto non ce l’ha perché è scaduto, e non essendo mai uscito dall’Italia, non ha mai avuto la necessità di rinnovarlo, soprattutto perché sa che a breve (si spera), potrà fare quello italiano. 

Niente, la finanziaria non chiude la pratica finché lui non porta il passaporto scaduto, e voglio ricordare che loro hanno tutti i documenti di riconoscimento esistenti.

Permesso di soggiorno, tessera sanitaria, carta d’identità, certificato di residenza e codice fiscale. 

Hanno tutto, e dopo più di un mese di avanti e indietro e di disagi, all’ultimo tirano fuori che il documento irrinunciabile è un passaporto scaduto senza alcuna validità legale. 

Io ero talmente esasperato che ho detto a mio fratello di cercarsi un’altra macchina da un’altra concessionaria. In due giorni ne ha trovato una uguale, gli ho dato i soldi di tasca mia, e il giorno dopo aveva l’autovettura. 

Ora, quando dite che la riforma della cittadinanza è inutile, che non bisogna farla e che tanto la legge attuale funziona benissimo per chi state parlando esattamente? Per voi che vi chiamate Mario Rossi e Anna Verdi? O siete portavoce di chi vive questi disagi quotidianamente?

Bisogna essere egoisti, ed anche un po’ str#nzi, per impedire con così tanta forza un diritto altrui che a voi non tocca minimamente. 

Per più di un milione di persone averla farebbe una differenza che non immaginate, ma a voi cosa verrebbe a mancare esattamente? Che pericolo vi crea? Che cosa vi toglie? 

Non ci vogliono soldi, né risorse. Non sarà una distrazione rispetto ad altre leggi o riforme.

Ci sono cittadini a cui lo Stato ha stampato in faccia il bollino di Serie B, e questa è un’enorme ed insensata ingiustizia.

Disconnettersi

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Avete mai avuto la tentazione di disconnettervi? Anche solo per un giorno o per qualche ora? 

Vi siete chiesti se siete in grado, o se ne avete la forza?  Disconnettersi da tutto e da tutti? Lasciare che le notizie non ci inseguano più, che i social siano all’oscuro su quello che stiamo pensando, che stiamo facendo? Lasciare muto WhatsApp, non rivolgere nessun cinguettio a Twitter e mandare Instagram in bianco e tenere le foto solo per i nostri ricordi?

Probabilmente sì, almeno lo spero. Ma quali potrebbero essere gli effetti, e perché ci siamo ridotti così?

Dal rapporto ‘Net Children Go Mobile’ realizzato dall’Università Cattolica di Milano emerge che il 79% dei ragazzi tra 9 e 16 anni dice di sentirsi in dovere di essere sempre raggiungibile, il 52% di avere un forte bisogno di controllare sempre il cellulare e il 43% si sente a disagio perché non può controllare il cellulare in caso di mancanza di campo o di batteria scarica.

Anche se questi dati fanno riferimento a una fascia ben precisa della popolazione, quella adolescenziale, non è molto diversa la situazione tra gli adulti. La necessità di sentirsi sempre connessi, raggiungibili è virale. Neanche quando si va in vacanza, momento deputato al relax e al distacco dalle attività che ci provocano stress, riusciamo a fare a meno della connessione. Una delle prime cose che chiediamo all’Hotel dove soggiorneremo è il WiFi.  

Ma perché ci siamo ridotti così?

Oggi il modello vigente è quello della produttività alla velocità della luce. La fibra è la cartina di tornasole, la sua diffusione indica l’indice di modernità di un paese. Tutto deve essere veloce, connesso e condiviso. Fuori da questi canoni sembra non poter esserci sviluppo, modernità, civiltà. 

La connessione diventa il fulcro di tutte le possibili interazioni e comunicazioni con la nostra comunità. La relazione con il cellulare si sostituisce a quelle reali, il virtuale diventa il luogo delle relazioni verosimili. Si ha paura di essere soli senza la connessione per poi accorgersi che la vera solitudine è rappresentata dall’incapacità di intrattenere una vera relazione umana basata sul contatto, sull’interazione e sulla sana comunicazione a due. Connessi con tutti, in relazione con nessuno. 

Omicidio di Stato

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Fanno più paura i conti o le intemperanza militari del presidente turco  Erdogan?

Gli addetti ai lavori, gli analisti economici e militari sanno che le minacce e l’attivismo militare in Mediterraneo di Recep Tayyip Erdogan, sono ben poca cosa rispetto al reale pericolo che la Turchia rappresenta oggi per l’Europa.  Le banche europee hanno molto da perdere se la situazione dovesse mettersi male con il presidente turco, l’esposizione è tale da poter minacciare la stabilità del settore bancario continentale.

L’agenzia di rating Moody’s ha lanciato l’allarme, le difficoltà economiche, endogene al Paese, aggravate dalla crisi mondiale per gli effetti della pandemia, potrebbero diventare un serio problema per l’Occidente, che con qualche riluttanza pensa a sanzioni economiche contro Ankara per le ripetute violazioni dei diritti umani.

Si ripropone il solito dilemma: si possono barattare i diritti umani in cambio della stabilità del sistema finanziario?

L’Occidente, con tedeschi e francesi in prima linea, con qualche sussulto e con parole di sdegno, hanno condannato l’ennesimo attivista morto nelle carceri turche. Dopo Ibrahim Gokcek, 39 anni, morto dopo 323 giorni di sciopero della fame, Helin Bolek, 288 giorni a digiuno arrivata a pesare 33 chili e Mustafa Kocak, 297 giorni senza cibo in solidarietà con la band Group Yorum, entrambi non avevano neanche trent’anni, a perdere la vita nello stesso tragico modo

l’avvocato Ebru Timtik, spirata il 27 agosto, dopo 238 giorni di sofferenze e privazioni.

Dallo scorso gennaio aveva deciso di avviare la drammatica forma di protesta per rivendicare il diritto a un processo equo e per chiedere condizioni di detenzioni dignitose. La Timtik era stata condannata a più di 13 anni di carcere nel 2019.

Senza ricorrere alle scene di Fuga di mezzanotte, la pellicola del ’78 di Alan Parker che denunciava le condizioni delle carceri turche, è facile comprendere come le privazioni per lo sciopero della fame e le condizioni di vita nelle fatiscenti celle turche, abbiano piegato i corpi di queste giovani donne e uomini che hanno osato sfidare il Sultano, ma queste morti non hanno piegato la volontà di una parte della società turca di riportare il Paese sui binari pre Erdogan, che ambiva a far parte dell’EU a tutti gli effetti.

L’Occidente, la Comunità Europea in primis, l’America di Trump si è completamente disinteressata, ha la memoria corta e sta rifacendo gli stessi errori fatti con il dittatore iracheno Saddam. Usato per anni in funzione anti iraniana, scaricato quando diventò ingombrante e poco gestibile. Ma questa volta la partita non è così semplice.

Tra aiuti, sussidi e incentivi per bloccare i flussi dei profughi siriani, l’Europa da oltre vent’anni ha versato e continua a versare un fiume di denaro. Tra il 2002 e il 2006 l’EU ha spedito nelle casse turche 1,3 miliardi, diventati rapidamente 4,8 tra il 2007 e il 2013 e 4,5 miliardi tra il 2014 e il 2020. A questi poi vanno aggiunti i soldi per trattenere il flusso di profughi che, con sapiente maestria è stato aperto e chiuso per fare pressione e in base all’umore del momento e alle necessità politiche del presidente turco.

Un’enorme quantità di denaro, che doveva servire per adeguare il sistema paese a quello europeo, per rafforzare la democrazia e avvicinare il grande Paese a cavallo tra Europa e Asia agli standard richiesti per accedere al club europeo, hanno, invece, contribuito a rafforzare la politica ora aggressiva ora amichevole che il presidente Erdogan esercita nei confronti anche degli stessi alleati europei e della NATO.

I leader europei si sono infilati in un vicolo cieco: sospendere i finanziamenti provocherebbe una marea di profughi, oggi rinchiusi e mantenuti in campi che l’Europa preferisce non vedere. Continuare a foraggiare Erdogan, per non destabilizzare il Paese e non rischiare i miliardi di dollari che le banche europee hanno investito in Turchia, alimenta le aspirazioni nazionalistiche dell’ex sindaco di Istanbul. Intanto gli omicidi di stato tentano di piegare l’opposizione interna.

Freelance- Redefine The Concept

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Nella cassetta degli attrezzi di un freelance ci sono molti attrezzi che tante altre professioni ignorano o conosco appena.

Ma chi è un freelance?

Già, ottima domanda. Semplificando, diciamo tutti quelli che non hanno un contratto di lavoro, in altre parole i non assunti.

Il termine freelance è stato utilizzato soprattutto nell’ambito giornalistico, e sono indicati con questo termine giornalisti, fotografi, cameramen e “stringer” – altro termine anglosassone che indica un aiuto sul campo, quasi sempre un giornalista o fotografo del luogo – che non hanno un rapporto di dipendenza stabile con un editore. A volte godono di un contratto di collaborazione che li lega in maniera esclusiva ma per la stragrande maggioranza dei freelance il “modus operanti” è quello dell'”assignment” dell’incarico.

E cosa succede se per un po’ il telefono non squilla? Ecco che bisogna ricorrere alla cassetta degli attrezzi, diamoci un occhio.

Di rado a un apprezzato medico, ingegnere o avvocato è richiesta nella loro professione l’andatura da velista: strambare e virare di continuo, per andare in cerca anche del più tenue refolo d’aria, in questo caso il vento della professione. Imparare a cambiare continuamente direzione è la prima virtù che un freelance deve affinare se vuole arrivare alla meta.

Quindi, prima regola, flessibilità.

La meta è solo una tappa. Avete piazzato il vostro primo lavoro e adesso? Bisogna ricominciare tutto da capo: trovare l’idea, contattare i possibili acquirenti, andare, produrre portare in giro il lavoro…

Questa è la vita da freelance? Si! Se siete degli ansiosi, degli insicuri e amate pianificare il vostro futuro, le vostre spese e anche le vacanze per l’estate prossima, sicuramente non siete dei freelance e se state pensando di diventarlo, vi do un consiglio gratis: “non fatelo”. Se invece credete ciecamente che il vostro lavoro merita di avere una chance e siete disposti a saltare le vacanze pur di realizzare il vostro sogno, scrivere il vostro reportage e realizzare le foto che avete in mente, allora­­­ da qualche parte, dentro di voi, si nasconde un freelance.

Se siete arrivati fin qui e volete conoscere cosa c’è nella mia cassetta degli attrezzi, seguitemi e vi rivelerò perché un paio di vecchie Adidas country sono il primo tools della mia cassetta degli attrezzi.

Alla prossima