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Il Futuro delle Democrazie: Una Deriva Verso Tecnocrazie e Oligarchie?

Negli ultimi anni, le democrazie occidentali hanno mostrato segnali di cambiamento che ne stanno alterando la natura. Un processo che, anziché rafforzare i principi cardine della sovranità popolare e della trasparenza istituzionale, sembra avvicinarle progressivamente a forme di tecnocrazia e oligarchia, dove decisioni cruciali sono prese da élite ristrette, talvolta senza un reale controllo democratico. Questo spostamento, spesso giustificato come necessario per affrontare sfide globali complesse, solleva domande fondamentali sul futuro di un modello politico che per decenni è stato il baluardo della libertà.

Trump il finto Robin Hood e la narrazione del potere muscolare

Donald Trump, figura emblematica del populismo contemporaneo, continua a fare notizia con dichiarazioni che oscillano tra il provocatorio e il surreale. Il suo recente proclama di voler “riprendersi il Canale di Panama” e, se necessario, “comprare o occupare con la forza la Groenlandia”, è solo l’ultimo esempio di una retorica che ignora convenzioni internazionali e relazioni diplomatiche consolidate. Eppure, ciò che colpisce non è tanto la gravità delle sue parole, quanto il silenzio o l’ambiguità della reazione occidentale. La propaganda di Trump si fonda sullo slogan di un’“America di nuovo grande”, una promessa che fa sognare – o forse illude, a seconda del punto di vista – milioni di cittadini. Tra questi, molte famiglie che, nel giro di pochi anni, hanno visto la globalizzazione e il crescente divario economico erodere una parte significativa del loro benessere e della loro capacità di spesa. Trump attribuisce la colpa di questa situazione a nemici esterni come la Cina o alla globalizzazione stessa o agli immigrati – probabilmente i veri artefici di una economia forte – piuttosto che al sistema politico dominato dalle lobby. Queste ultime hanno vincolato il Congresso agli interessi delle grandi imprese e della finanza, contribuendo a uno scenario che penalizza i più vulnerabili.

Proprio in queste ore, il rapporto annuale di Oxfam sulla povertà ha lanciato un allarme drammatico: metà della popolazione mondiale vive con meno di 6,85 dollari al giorno, mentre l’1% più ricco detiene il 45% delle ricchezze globali. Eppure, il dato più paradossale è un altro: è proprio tra i ceti più poveri e ai margini della società che la destra conservatrice, tradizionalmente garante dello status quo, raccoglie oggi il maggior consenso. Questo fenomeno appare inspiegabile, ma forse si radica in un’illusione collettiva: votare per lo stesso partito dei “padroni” nella speranza, un giorno, di diventare come loro. 

L’idea di un leader democratico che usa un linguaggio da imperialismo del XIX secolo dovrebbe generare scandalo, ma nel caso di Trump, appare quasi normalizzata. Questa accettazione tacita, o quantomeno riluttanza a criticarlo apertamente, pone un interrogativo spinoso: in cosa differisce una simile postura da quella adottata da autocrati come Vladimir Putin? Se si giudicano le intenzioni e i mezzi, le differenze si assottigliano drammaticamente. Del resto, gli esempi in Europa non mancano. Pensiamo a Viktor Orbán, emblema di una politica autoritaria e illiberale, o alla demagogia della destra britannica che ha condotto il Regno Unito fuori dall’Unione Europea con il miraggio di un futuro migliore. E in Italia? Anche qui non siamo immuni dai campioni delle illusioni, pronti a promettere cancellazioni delle accise, mille euro sul conto corrente di ogni cittadino o addirittura blocchi navali per fermare l’immigrazione. Promesse che suonano accattivanti, ma che si scontrano puntualmente con la realtà.

Oligarchie sotto mentite spoglie

Il problema non riguarda solo Trump. In generale, molte democrazie stanno cedendo terreno a strutture oligarchiche e tecnocratiche. Leader eletti utilizzano il mandato popolare come un lasciapassare per consolidare il potere personale o favorire interessi economici di élite ristrette. La democrazia diventa così un vestito formale che nasconde meccanismi di concentrazione del potere, con scarsa attenzione al bene comune.

Nel caso degli Stati Uniti, il Congresso sembra sempre più subordinato alle dinamiche delle lobby e del denaro, con un sistema politico che premia chi può investire miliardi in campagne elettorali. Questo scenario è replicato, con variazioni locali, in molte altre democrazie occidentali. La rappresentanza popolare rischia di diventare un’illusione, e il divario tra i cittadini e le istituzioni si allarga.

La tecnocrazia come alternativa ambigua

A complicare il quadro è la crescente influenza della tecnocrazia, cioè l’affidamento di decisioni cruciali a esperti, tecnici e burocrati. In un’epoca di crisi globali – dalla pandemia al cambiamento climatico, dalla sicurezza informatica alla regolamentazione delle intelligenze artificiali – il coinvolgimento degli esperti sembra inevitabile. Tuttavia, questa transizione verso la tecnocrazia ha un costo: le decisioni vengono spesso prese in spazi opachi, lontano dal dibattito pubblico, e le priorità della popolazione finiscono per passare in secondo piano.

Un esempio lampante è la gestione della pandemia da COVID-19, dove molte democrazie hanno accettato restrizioni straordinarie alle libertà individuali basandosi su consulenze tecniche. Sebbene giustificate in molti casi, queste misure hanno mostrato quanto velocemente le democrazie possano adattarsi a modelli autoritari, con un consenso che si basa più sulla paura che sulla partecipazione informata.

Il confronto con le autocrazie

Il confronto con i regimi autoritari rende la situazione ancora più ambigua. Putin, Xi Jinping e altri leader autocratici giustificano le loro azioni con argomentazioni non troppo diverse da quelle usate nelle democrazie in crisi: necessità di protezione nazionale, interessi economici strategici, e persino “desiderio popolare”. Quando Trump minaccia di comprare o occupare territori stranieri, il suo linguaggio non è meno imperialista di quello di Putin nei confronti dell’Ucraina. Eppure, il giudizio morale e politico sembra seguire due pesi e due misure, a seconda di chi sia il protagonista della narrazione.

Riflessioni sul futuro

Se le democrazie vogliono preservare la loro essenza, devono affrontare una serie di domande cruciali: qual è il limite tra leadership forte e autoritarismo?  

Quanto potere possono concentrare le élite economiche e tecniche senza erodere la sovranità popolare? 

Come preservare un sistema politico trasparente e rappresentativo in un’era di crisi globali?

La risposta non sarà facile. Ma se la democrazia si allontana dai suoi principi fondanti, rischia di diventare un simulacro di sé stessa, lasciando campo libero a tecnocrati, oligarchi e leader che non si distinguono più dagli autocrati che criticano.

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Il mio G8 di vent’anni fa

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Non ho mai raccontato la mia esperienza al G8 di Genova di vent’anni fa, non avrebbe aggiunto o rivelato nulla a quello che abbia visto e letto sui quei terribili giorni. Anche una buona dose di disagio nel ricordare quelle poche ore trascorse a Genova mi ha fatto archiviare quell’esperienza. 

Come fotogiornalista raramente ho scelto di seguire quelle che in gergo si chiamano Hot News, gli eventi di una certa importanza che sono seguite dalle più importanti agenzie di stampa del mondo intero, ed è abbastanza ovvio che, come freelance, non posso competere sulla velocità. Infatti, la mia scelta cadde su un aspetto marginale, meno impattante ma certamente importante: avrei raccontato il G8 da un altro punto di vista, della gente comune, degli operai e pensionati che vivevano nelle zone rosse. Il settimanale tedesco al quale avevo proposto il servizio aveva dato luce verde. Ricevute alcune dritte e chiarita qualche richiesta, decisi di andare a Genova in treno. Da Milano erano diversi i gruppi di partecipanti e attivisti – chiamiamoli così – che riempivano i vagoni. L’aria che si respirava era quella di prima della battaglia, come quando Cesare, esortando l’esercito alla battaglia secondo l’uso militare, Cesare ricordò i propri meriti acquisiti in ogni tempo verso di loro e soprattutto, chiamando loro stessi a testimoni… ma loro malgrado, tanti finirono per essere protagonisti e molti anche vittime della violenza che in quelle ore si scatenò in tutta la città. La tentazione era di cominciare a fotografare e raccogliere qualche storia a bordo del treno ma poi, visto il clima che si respirava, ricordai a me stesso che non era quella la storia che stavo cercando di raccontare.

Alla radio le notizie riferivano di tafferugli e scontri isolati qua e la per la città ma nulla che lasciasse presagire quello che sarebbe accaduto da lì a qualche ora. Avevo appuntamento con Ettore, un pensionato della Breda che viveva a due passi da Piazza Alimonda, dove cadde ferito a morte Carlo Giuliani, il manifestante che stava tentando di scagliare un estintore su un carabiniere, rimasto intrappolato sulla jeep. Feci alcune foto di Ettore e di alcuni suoi vicini mentre i rumori di scontri e vetrine rotte arrivavano dalla piazza. Avevo finito di fotografare in quella zona e dovevo recarmi poco lontano, in piazza delle Americhe, proprio a ridosso della zona chiusa, cuore del G8. Gli scontri erano violenti e a un certo punto scattò la caccia ai fotografi e ai cineoperatori che tentavano di mettersi al riparo o stavano vicino alle forze dell’ordine. Molti colleghi furono rapinati dalle attrezzature, alcuni riuscirono a difendersi con non poche botte e danni alle attrezzature. Io viaggiavo leggero, avevo una borsa di tela militare, nulla che facesse pensare a una borsa fotografica. Al collo avevo una Leica che tenevo seminascosta da una sciarpa, la Nikon digitale con cui avevo fatto le foto a Ettore e ai suoi vicini era nella borsa. Andavo spedito cercando di evitare di incrociare gruppi di facinorosi che prima si esaltavano davanti ai fotografi e cineoperatori che li riprendevano a distanza, dopo, per i colleghi che si avvicinavo troppo, botte e rapina erano assicurate.  Improvvisamente tre ragazzi, tutti in nero, due parlavano italiano e l’altro inglese, con un chiaro accento tedesco, mi circondarono. Vogliono la macchina che ho al collo e la borsa. Comincia una concitata trattativa, dico loro che non ero lì per fotografare gli scontri ma non sentono ragione. A quel punto chiedo loro se sono manifestanti per una causa o rapinatori? Perché se sono rapinatori, dico loro, faccio prima a consegnargli il portafogli. Un momento d’impasse, si guardano, non sanno cosa fare. Il tedesco urla camera, camera, a quel punto dico agli italiani “allora siete rapinatori”, uno dei due italiani mi dice che sono combattenti contro il sistema, a quel punto un autoblindo della Polizia ci passa accanto, e nel timore di essere loro l’obbiettivo dell’autoblindo, si allontano correndo. Poco dopo arrivò la notizia dell’uccisione di Carlo Giuliani. Non avevo più voglia di fare quel servizio, sapevo che fino a quel momento mi era andata bene, non sapevo come avrei potuto reagire a un altro tentativo di rapina, perché di rapina si trattava così come le tante che subirono molti colleghi. Tornai a Milano, chiamai il giornale e dissi loro che non avevo fatto il servizio, del resto, con tutto quello che era accaduto non sarebbe mancato loro cosa mettere in pagina. Le storie e le immagini di quelle ore fecero il giro del mondo, i fatti della Diaz, di Piazza Alimonda, vent’anni dopo continuano ad avere narrazioni diverse, di parte, senza un briciolo di obbiettività.

In queste ore si possono leggere molti commenti e ricostruzioni su quei fatti, in televisione un documentario tenta una ricostruzione, in tanti illustri commentatori raccontano le loro versione, in molti tentano di spiegare le ragioni di un fallimento. Sì perché di fallimento dobbiamo parlare. Fallì il governo nell’organizzazione del servizio di Pubblica sicurezza, fallirono le organizzazioni sindacali, fallirono le associazioni No global, i mezzi di comunicazione, le forze di Polizia, anche io, tornai senza foto, gli unici che raggiunsero il loro scopo furono i Black Bloc, un’orda di barbari arrivati da tutta Europa con un solo obbiettivo, mettere a ferro e fuoco la città. 

Beppe Grillo, il penultimo rivoluzionario cubano.

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Il garante del Movimento 5 Stelle Beppe Grillo esprime il suo sostegno al governo di Cuba e alla rivoluzione castrista pubblicando sul suo blog una lettera pro Havana di Frei Betto, teologo e politico brasiliano, in cui difende la rivoluzione castrista che assicura tre fondamentali diritti umani: cibo, salute e istruzione. Vi state chiedendo che ne è della libertà, del diritto fondamentale, il primo e indispensabile diritto senza il quale gli altri sono solo concessioni? Non è contemplato e non ne fa mistero Frei Betto, così come tanti, tantissimi intellettuali e importanti personaggi della cultura della seconda metà del Ventesimo secolo.

Ma per comprendere la vicenda, facciamo un passo indietro. 

Per noi baby boomer, cresciuti durante gli anni di piombo, con il poster di Che Guevara in camera e il proclama Patria o morte sulle magliette e le bandiere sventolate durante le occupazioni studentesche, il regime di Fidel Castro ha rappresentato l’isola felice del socialismo. Cuba era la realizzazione dell’eguaglianza sociale e politica, il luogo dove la dignità umana e la giustizia erano la plastica testimonianza di un’alternativa al modello delle sgangherate democrazie occidentali, basate sul consumismo, la crescita del Pil e le classi sociali.  E ancora prima di tutto ciò c’era l’innamoramento per un ideale di rivoluzione romantica, incarnata da un personaggio da romanzo, bello come un divo di Hollywood e capace di parlare alle masse con parole semplici e dirette: Ernesto Guevara, il rivoluzionario, guerrigliero, scrittore, politico e medico argentino, divenuto un’icona per milioni di studenti e aspiranti rivoluzionari.

Ero nella pancia di mia madre durante la fallita invasione della Baia dei Porci, tentata da uno sparuto gruppo di esuli cubani, finanziati dalla CIA, e sicuramente non camminavo ancora quando Nikita Krusciov, per reazione, inviò una serie di missili che dovevano essere installati sull’isola caraibica. I missili non arrivarono mai ma il mondo arrivò a un tanto così dall’olocausto nucleare. Non sapremo mai se Kennedy sarebbe stato davvero disposto ad affondare le navi russe arrivate con il carico nucleare da installare in quello che gli americani consideravano il cortile di casa e nel dubbio, forse, anche il presidente sovietico Krusciov preferì desistere. Da allora migliaia di libri, centinai di convegni, interminabili dibattiti – complice la guerra fredda e la divisione del mondo in blocchi contrapposti – ci hanno instillato l’immagine di una società cubana felice della loro dignitosa povertà, di un popolo indomito che non si è piegato al modello consumistico e libertario americano che aveva trasformato l’isola cubana, governata da Batista, in un grade Casinò e in un esotico bordello a cielo aperto. 

Come dicevo, non ero ancora nato quando tutto ciò ha avuto inizio, ed ero scolaretto alle elementari quando il mito vivente, passato alla storia come il simbolo delle lotte per la libertà e la giustizia sociale, Ernesto Che Guevara, stanco, affamato e stremato, finiva i suoi giorni, tradito dai contadini che era venuto a liberare e nel tentativo di esportare la rivoluzione, in una sperduta località tra le montagne boliviane. 

In milioni, studenti e rivoluzionari sognatori, abbiamo usato la nostra libertà per manifestare e sostenere un regime che non contemplava proprio la libertà tra i suoi diritti fondamentali e per decenni ci siamo recati sull’isola per manifestare il nostro appoggio alla causa castrista assieme all’apprezzamento per il suo rum, i suoi sigari e le sue donne, divenuti i maggiori prodotti di esportazione.

Sono stato alcune volte a Cuba, per lavoro e per turismo. L’isola felice del socialismo e delle abolizioni delle classi sociali tutto mi è sembrato che felice. La curiosità per come vivevamo noi europei, per i nostri prodotti, per la libertà che avevamo di andare dove volevamo, per tanti cubani erano motivi di curiose domande e talvolta aspri dibattiti su quanto effettivamente eravamo liberi. In alcuni casi avevano ragione: un operaio o un contadino europeo difficilmente poteva permettersi di viaggiare liberamente, le condizioni economiche di milioni di europei, con salari appena sufficienti alla sopravvivenza, per gli attivisti cubani erano la conferma che vivevamo in uno stato d’immaginaria libertà. In fondo loro vivevano meglio: non aspiravano a un’economia di mercato, capace solo di produrre schiavi del consumismo, loro avevano la musica, l’allegria, l’idea di una rivoluzione che li aveva liberati e un regime che assicurava una casa, cibo e istruzione per tutti. Prima di ripartire, spesso ci chiedevano di barattare i nostri jeans o le nostre logore scarpe da ginnastica con qualche bottiglia di pessimo rum o con una scatola di sigari, puro habano, trafugati dalle fabbriche di stato. Lasciando l’isola, ogni volta, mi chiedevo da che parte stava la ragione: erano più liberi i cubani o noi europei? Se la felicità è fatta anche di un paio di logore scarpe da ginnastica e un vecchio jeans, in fondo non doveva essere così terribile vivere a Cuba, o no?

Grillo, dall’altra villa in Sardegna perché quella di Marina di Bibbona l’ha messa in affitto a 12.500 Euro settimana – magari c’è qualcuno che vuole respirare l’aria dell’elevato – esprime solidarietà al regime cubano. Una volta tanto Grillo è coerente. Il leader massimo pentastellato non fa mistero delle simpatie per il regime cinese, di cui, probabilmente, apprezza il ruolo e la figura di Xi Jinping, che incarna tutto il potere e la forza della Cina: è capo politico e militare e padre padrone del paese più popoloso al mondo, e per Grillo che si sente anche lui un po’ padre, un po’ padrone e tanto leader, il modello cinese o quello castrista sembrano interessarlo particolarmente.

Beppe Grillo è il penultimo rivoluzionario cubano perché ci sarà sempre qualcuno, andando in vacanza sull’isola, che s’innamorerà della rivoluzione cubana e dei suoi simboli e i più fortunati potranno ballare in compagnia la Salsa cubana sorseggiando un’elegante Margarita o, più prosaicamente, un Cuba Libre, mentre i meno fortunati potranno accontentarsi dei libri del Che.

Probabilmente moriremo cinesi, come ha scritto Rampini, ma cino-grillino è un’onta che non so se potremo perdonarci.

Tra est e ovest, i diritti umani negati

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La Corte Suprema americana si è pronunciata giovedì a favore di due società Usa accusate di complicità nella schiavitù infantile nelle coltivazioni di cacao della Costa d’Avorio. La decisione è stata l’ultima di una serie di sentenze che impongono limiti rigorosi alle cause intentate in tribunale federale per violazioni dei diritti umani all’estero.

A Hong Kong una massiccia operazione di polizia, con 500 agenti, ha arrestato diversi giornalisti del quotidiano Apple Daily, dell’editore pro-democrazia Jimmy Lay, già arrestato ad aprile scorso e condannato a 14 mesi di detenzione. Gli agenti di polizia hanno fatto irruzione nella redazione del giornale provocatoriamente pro-democrazia; i computer dei giornalisti controllati; arrestati i migliori editori; congelati i conti aziendali; e ha avvertito i lettori di non ripubblicare e condividere alcuni dei suoi articoli online.

Negli Stati Uniti un gruppo di sei cittadini del Mali ha avuto la possibilità di ricorrere a un tribunale per affermare di essere stati vittime della tratta in schiavitù da bambini. Hanno fatto causa a Nestlé USA e Cargill, affermando che le aziende avevano aiutato e tratto profitto dalla pratica del lavoro minorile forzato. Il caso si è concluso con un nulla di fatto, il giudice Clarence Thomas, scrivendo per una maggioranza di otto membri, ha affermato che le attività delle società negli Stati Uniti non erano sufficientemente legate agli abusi asseriti.

La Cina, in maniera sempre più esplicita afferma che quanto avviene a Hong Kong riguarda esclusivamente le autorità locali e nessuno deve intromettersi negli affari interni del Paese. Un rapporto di Amnesty International del 2020ha denunciato come la Cina ha continuato la sua inesorabile persecuzione dei difensori dei diritti umani e degli attivisti, nonostante le disposizioni costituzionali e i suoi impegni e obblighi internazionali. Durante tutto l’anno, sono stati sistematicamente oggetto di molestie, intimidazioni, sparizioni forzate e detenzioni arbitrarie e lunghi periodi di reclusione.

Libertà di stampa e diritti umani sono le due facce della stessa medaglia, la medaglia della democrazia. Da che parte pende la nostra visione di democrazia?  

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Le foto del genocidio abbellite e colorate

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Vice, il gruppo media internazionale costretto a scusarsi e a rimuovere le foto ritoccate delle vittime di Pol Pot

In queste ore in Cambogia sta facendo molto discutere il caso della testata internazionale Vice che ha pubblicato una serie di foto delle vittime del genocidio dei Khmer rossi colorati e alcune apparentemente modificate per aggiungere sorrisi ai loro volti.

La Cambogia ha condannato le immagini dell’artista irlandese Matt Loughrey che ha modificato le foto che ritraggono i prigionieri che sono stati schedati con immagini in bianco e nero, scattate nella famigerata prigione di Tuol Sleng, dove migliaia di persone sono state torturate e interrogate prima di essere inviate ai campi di sterminio di Choeung Ek.

Youk Chhang, il direttore del Centro di documentazione della Cambogia , che conserva un vasto archivio di materiale relativo ai Khmer rossi, lui stesso è un sopravvissuto, ha detto che il suo cuore batteva all’impazzata quando ha visto le versioni ritoccate delle immagini. “Come puoi trasformare l’inferno in felicità?” si è domandato. “È stata una grave ingiustizia alterare un simile pezzo di storia, che è ancora una storia vivente”.

Il Ministero della Cultura e delle Belle Arti ritiene che le immagini modificate “compromettano seriamente la dignità delle vittime” e ha chiesto che vengano rimosse dalla pubblicazione, minacciando azioni legali.

Vice ha detto che in effetti qualcosa nei suoi meccanismi di controllo dei suoi standard editoriali non ha funzionato: “L’articolo includeva fotografie di vittime dei Khmer Rossi che Loughrey ha manipolato oltre la colorazione …

Ci rammarichiamo dell’errore e indagheremo sulle cause che hanno consentito la pubblicazione delle foto senza il necessario controllo “.

Nell’intervista con Vice, ora rimossa, Loughrey ha detto di aver iniziato a lavorare sulle fotografie di Tuol Sleng quando è stato contattato da qualcuno in Cambogia che voleva che tre fotografie – inclusa una foto d’identità scattata all’interno della prigione – venissero restaurare.

Ha poi lavorato su ulteriori immagini delle vittime, aggiungendo che più persone si erano fatte avanti con simili richieste.

Alla domanda sui sorrisi che apparivano sui volti di alcune vittime, Loughrey ha detto che ciò potrebbe essere dovuto al nervosismo e che le donne sembravano sorridere più spesso degli uomini, ma non ha detto di aver aggiunto sorrisi ad alcune delle immagini restaurate.

Tuttavia, sui social media, le persone hanno pubblicato quelle che sembravano essere le immagini originali insieme alle versioni modificate, chiedendosi perché le espressioni degli individui fossero cambiate.

Il Ministero della Cultura e delle Belle Arti ha dichiarato che il progetto di Loughrey, che ha utilizzato le foto delle vittime del genocidio abbellite e colorate, ha anche violato i diritti del museo in quanto legittimo proprietario e custode delle immagini. “Esortiamo i ricercatori, gli artisti e il pubblico a non manipolare alcuna fonte storica per rispettare le vittime”.

Si stima che circa 1,7 milioni di persone, un quarto della popolazione della Cambogia all’epoca, furono uccise tra il 1975 e il 1979 sotto il regime dei Khmer rossi.

Il numero dei morti non è mai stato calcolato con precisione, e le stime dal milione e mezzo ai tre milioni di morti tra il 1975 ed il 1978, pari a circa un quarto della popolazione cambogiana. Questo episodio è spesso citato come esempio della presunta brutalità del Comunismo, tuttavia ci si dimentica di ricordare che furono proprio i comunisti ad essere le vittime del genocidio cambogiano . Pol Pot , infatti, si preoccupò di eliminare tutti coloro che erano stati formati, sia negli studi che nell’arte militare, da parte del Partito Comunista Vietnamita, che aveva fornito loro una solida formazione marxista-leninista.

Le fake news fanno parte ormai del nostro quotidiano tanto da costringere i maggiori sociali e i governi a trattare seriamente l’argomento ma soprattutto a istituire strumenti e meccanismi per contrastarle. Dopo le News adesso tocca anche alle immagini? Photoshop ci ha abituati a incredibili effetti e a sorprendenti montaggi, dove il fantastico diventa verosimile e l’impossibile possibile ma raramente si è cercato di spacciarle per originali e, nei pochi casi in cui si è tentato di farlo sono sempre stati miseramente smascherati.

L’altro Matteo

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Scrivendo del Matteo del Papete, per equità e par condicio – e anche perché me l’ho ha ordinato il medico, e non è uno scherzo – non potevo non pensare che anche l’altro Matteo meritava che si scrivessero un paio di cosine sul suo conto. Ma mentre iniziavo a scrivere, qualcuno, scrivendo meglio e molto di quello che avrei fatto io, ha sintetizzato in queste ottime righe quello che in tanti pensano.

E allora perché spendere altre energie? Quest’articolo, di cui sottoscrivo ogni singola parola, è stato scritto da Daniela Ranieri su Il Fatto quotidiano del 30 gennaio 2021.

RENZI: È ORA DI CHIEDERSI PER CHI LAVORA DAVVERO

Questa sciagura che affligge l’Italia dal 2014 produce oggi i suoi effetti più esiziali. Il calibro dell’uomo è tale che non ha trovato momento migliore per esercitare la sua volontà di prepotenza dell’apice di una pandemia che ha provato il Paese allo stremo. Aveva solo l’arma di far cadere il governo, distruggere l’alleanza che lo reggeva, disarcionare il presidente del Consiglio che ha dieci volte il suo consenso, e l’ha usata. Ora, incattivito dal sapersi odiato dalla maggioranza degli italiani da cui pretendeva di essere adorato (è la definizione di personalità narcisistica secondo Lasch: una formazione psichica in cui “l’amore rifiutato ritorna a sé sotto forma di odio”), dopo aver prodotto il disastro se ne va bel bello in Arabia Saudita a curare i suoi affari economici e ad adulare un regime efferato e liberticida; come un bambino che dopo aver distrutto un giocattolo si dirige verso un’altra distrazione senza alcun senso di colpa e responsabilità. Il video che testimonia della sua gita è sconcertante. Nonostante sembri leggerla da un gobbo o recitarla a memoria, la prolusione in inglese grottesco è un’agghiacciante mistura di piaggeria e banalità. “È un grande piacere e onore essere qui con il grande principe Mohammad bin Salman. Per me è un privilegio poter parlare con te di Rinascimento Credo che l’Arabia Saudita possa essere il luogo per un nuovo Rinascimento futuro”. E come no. Nascesse oggi a Riyad, l’omosessuale Michelangelo sarebbe arrestato, frustato, internato in clinica psichiatrica, amputato e ammazzato con esecuzione pubblica. È di qualche rilevanza che il grande principe Mohammad bin Salman, chiamato con deferenza Vostra Altezza, sia ritenuto dall’Onu il mandante dell’omicidio del giornalista del Washington Post Jamal Khashoggi, fatto a pezzi nel 2018 nel consolato saudita di Istanbul. Ora viene magnificato come un principe rinascimentale da colui che ha definito Conte un “vulnus per la democrazia”. (A proposito: chissà se dopo l’ospitata ancora se lo litigano l’Onu e la Nato). Habitué dei regimi del Golfo, dove da tempo piazza discorsi (anzi: speech) lautamente remunerati (a lasciare interdetti è che nel mondo ci sia chi è disposto a pagare per starlo a sentire, quando la maggioranza degli italiani pagherebbe per non sentirlo più), si dice geloso del “costo del lavoro” locale, ignorando o fregandosene del fatto che in Arabia Saudita esistono forme di lavoro neo-schiavistico e milioni di immigrati lavorano alla crescita economica del regime in condizioni disumane. Le donne, che lui si vanta di “valorizzare” in patria (togliendo loro la parola, facendole dimettere a comando), non hanno alcun diritto e sono sottoposte alla tutela maschile, e se si ribellano alla legge vengono torturate. (Ma forse si riferiva al costo del suo lavoro: 80 mila euro sauditi l’anno). Il discorso prosegue con le banalità che ci si aspetta da lui, già sentite nel documentario kitsch di cui fu autore: dopo la peste viene il Rinascimento, Firenze piena di soldi, “tanti soldi, così buoni finanziamenti, per creare un buon cittadino con un grande investimento nell’istruzione, nell’intelligenza umana” (traduzione di Fabio Chiusi). Baggianate da marketing, con spreco di quella “bellezza” da depliant turistico in albergo, che prima scriveva nei suoi “libri” e ora va a dire nelle petromonarchie più sordide del mondo. Lì dove partono le bombe per lo Yemen lui vede un nuovo Rinascimento. Lo sberluccichio dei soldi lo acceca, gli erode la eventuale moralità residua. Da Riyad muove pedine in Italia per bocca delle vestali del suo partito-setta: spediamo Conte in Europa e mettiamo Gentiloni a capo del governo, anzi Sassoli, anzi Di Maio, anzi mettiamo Draghi all’economia e promettiamogli il Quirinale. Torna per le consultazioni con aereo privato pagato dal fondo saudita nel cui board siede, si burla della massima Istituzione della Repubblica producendosi in un comizio in cui con voce stridula dice il contrario di quello che intanto fa trapelare dalle agenzie. Pare in preda a un delirio

superomistico, uno che non ha più niente da perdere. Nel nostro ordinamento non esiste il reato di apologia di regimi dittatoriali e sanguinari. Ci si può recare in cambio di soldi a rendere omaggio ai loro padroni. Anche il suo idolo Tony Blair, quello che si era inventato armi di distruzione di massa in Iraq, e Obama lavorano come conferenzieri; ma nessuno di loro è ancora attivo in politica, mentre lui è senatore e membro della commissione Difesa: o nell’universo parallelo degli affari si è ritirato dalla politica nel 2016? Come diceva lui quand’era al governo e si sentiva Nerone: poche chiacchiere. Per chi lavora questo personaggio? Perseguendo quali interessi? La domanda è lecita, visto che le risposte “per gli italiani” e “nell’interesse esclusivo della Nazione” sono a questo punto le meno probabili.

Un Matteo vale l’altro?

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Un caro amico mi fa notare come mi occupi solo e sempre dei misfatti di Salvini & Co. senza mai indignarmi, invece, per lo spettacolo che il governo, appena dimesso, ha dato di sé.

Tradizionalmente, tutti i governi che si sono succeduti, da Mani pulite in avanti, chi più o chi meno, hanno fatto rimpiangere, e non poche volte, quei governi che magari duravano solo pochi mesi o quelli che ti fanno ancora dire “si stava meglio quando si stava peggio”. Sì, è un giudizio sommario e un tantino superficiale, me ne rendo conto ma oggi la politica, che vive di immediato e facile consenso e insegue gli umori dell’elettorato, cambia idea e programmi in base ai sondaggi e per alcune forze politiche è diventato il loro modo naturale di fare politica e il giudizio non può che essere altrettanto affrettato e superficiale. I trend e i topic dei social dettano il programma politico, e l’obiettivo è rispondere agli umori dell’elettore per governare per un’intera legislatura. I governi di prima non riesco a valutarli, ero troppo giovane per le noiose tribune elettorali, gli unici momenti in cui i politici facevano finta di parlare alla gente ma per quanto male abbiano fatto, hanno comunque ricostruito un Paese, da agricolo a quinta economia mondiale. 

Oggi ci alterniamo da un Matteo all’altro, da un veto a una crisi balneare, senza capirne davvero le ragioni. Certo, non mancano i motivi per indignarsi per il triste teatrino del Conte due, che era figlio, guarda caso, del Conte uno, eletto da quelli del Vaffa day e di Roma ladrona, il cui capo è proprio quel Matteo balneare, del Papete, che poi decise, tra un ghiacciolo e un bagno, che il suo socio di governo doveva andare a casa, prescindendo anche dalle prerogative costituzionali del Presidente della Repubblica. Quell’altro Matteo – quello dello “stai sereno” -, invece,  con la stessa serafica sicumera invoca il futuro dei suoi figli – cuore di papà – e l’eventualità che questi possano un domani chiedergli conto delle sue azioni sul Recovery fund e su come è stato utilizzato, e per questo vuole mandare a casa Conte ma non la sua maggioranza, che potrebbero sostenere solo a determinate condizioni. Pronti a riappoggiare un altro Conte: il Conte ter. Non chiedetemi di più, faccio fatica a capire.

Anche il primo Matteo tira in ballo spesso la progenie, come quando, andando dai magistrati per il caso della nave Diciotti, disse che non sapeva cosa rispondere alla figlia che gli chiedeva perché andava davanti ai magistrati, lui che aveva fatto solo il suo dovere, aveva difeso i confini della patria. La minaccia era costituita da un centinaio di sfiniti naufraghi.

Ma perché, secondo il mio amico, è il Matteo del Papete che critico di più? 

La coerenza e l’onestà intellettuale, oltre alla storia politica che rappresenta, sono per me la cartina di tornasole di chi mi deve rappresentare, ed è difficile che possa sentirmi rappresentato da uno che per anni ha letteralmente sputato addosso a una parte del Paese, rei di essere fannulloni e parassiti, di essere ladroni, come la capitale in cui facilmente e velocemente si sono insediati. Di quella Roma ladrona hanno presto imparato linguaggio, modi e costumi, riuscendo a essere anche più bravi. C’è voluto poco, molto poco per calarsi perfettamente nei rituali della politica romana, e c’è voluto anche meno per cominciare a rubare, esattamente come quelli che li avevano preceduti. Nei giorni di Mani pulite, nel disperato tentativo di salvare il salvabile – poco – Craxi tentò di spiegare ai magistrati che non c’era nessuno senza peccato che poteva scagliare la prima pietra. Tutta la storia repubblicana del dopoguerra si poggia su un unico caposaldo: contrastare il blocco sovietico. E i comunisti erano aiutati da Mosca, e loro dovevano arrangiarsi come potevano, perché la politica costa e non sempre era possibile finanziare il contrasto antisovietico legalmente, e allora le tangenti erano la forma non legale ma accettata per salvare la libertà, la democrazia, per cui molti di loro avevano combattuto. Rubare per il partito aveva le sue attenuanti. 

La Lega Nord di Umberto Bossi capisce subito che rubare è anche forma di lotta politica: lottare contro quella Repubblica dalla quale affrancarsi, della quale non rispetta la bandiera – da usare come carta igienica – sbeffeggia la nazionale di calcio e il vilipendio sono doveri rivoluzionari. Non sono i soli, per la verità, in tutte le formazioni politiche troviamo dei “rivoluzionari” che a modo loro conduco la loro personale rivoluzione, ma i leghisti hanno una marcia in più, ce l’hanno nel DNA.

Per anni la secessione è stato il sogno nel cassetto, il vessillo della libertà delle genti padane, da sventolare ai raduni in canottiera tra Pontida e la sorgente del Po. Quando poi non c’era da bruciare la bandiera italiana, a Venezia, dove si concludeva il cammino di celtizzazione del nord e dove si andava a versare l’ampollina raccolta alle sorgenti del Po. Raccontare di quella Lega oggi sarebbe troppo semplice, in fondo erano anche coloriti e non destavano preoccupazione, erano un fenomeno regionale. Riposti i forconi e le bandiere verdi per l’anno dopo, smaltite salamelle e birra, tutti tornavano alle loro valli, alle attività, perché in fondo va bene fare baldoria ma il lavoro è il lavoro e i dané sono i dané. 

Per qualche voto in più, la nuova Lega, riesce a rinnegare anni di antimeridionalismo, improvvisamente napoletani e siciliani non puzzano più, hanno smesso di incitare l’Etna. Adesso è arrivato il momento di prima i siciliani, i calabresi, i sardi, i campani, i pugliesi. Incredibilmente riescono a darla anche a bere a chi ha come valori la difesa dell’identità nazionale, la bandiera, l’onore, la parola data. La Lega del dopo Bossi comincia a trovarsi d’accordo con le frange estreme della destra, comincia a flirtare con i neofascisti, trova modelli estranei alla cultura di questo Paese, come il respingimento in mare di profughi e immigrati, facendo diventare loro i nuovi terroni, spingendo un po’ più a sud il confine del sacro Po per salvare l’identità nazionale. Nel corso di una sola stagione elettorale, il Matteo del Papete riesce a cambiare idea più volte sulla permanenza in Europa, l’Euro diventa un sasso al piede per l’economia del Paese tanto da ipotizzare l’emissione di una valuta parallela. L’autarchia economica salviniana rifiuta i soldi che arrivano dall’Eu – di cui facciamo parte, quindi soldi anche nostri – a tassi premianti o a fondo perduto per ricorrere al mercato, alle condizioni di mercato. A Bruxelles riesce a stringere alleanze con i maggiori leader dei partiti populisti e sovranisti, diventando lui stesso vittima del sovranismo dei suoi alleati. Nessun aiuto da parte di Orban, dell’olandese Geert Wilders. 

Tra un bagno e uno spritz è artefice del nuovo soggetto politico sovranista europeo, con l’obiettivo dichiarato del gruppo, sotto il motto ‘i popoli rialzano la testa’, di sovvertire gli equilibri all’interno del Parlamento Europeo.

Tra un rosario ostentato e una mascherina commemorativa, o una divisa sfoggiata, il Matteo del Papete ha una ricetta per tutto. In poche settimane riesce a battersi per i No mask e per i commercianti, il lockdown è un colpo di stato mascherato ma poi  chiede misure più rigide perché “non è così che un governo serio combatte una pandemia” e in fine invita alla disobbedienza civile. Percorre l’Italia su e giù sembra la vera attività dell’ex titolare del ministero degli Interni, dove, in dieci mesi d’incarico, l’hanno visto appena 11 volte. Ha più tempo per farsi ritrarre con sindaci e amministratori locali, come la sindaca di San Germano Vercellese, Michela Rosetta, un modello di amministratore locale a marchio Lega, campione di iniziative contro gli immigrati, a cui sottraeva gli aiuti alimentari che girava a chi non ne aveva diritto o necessità.

Nelle ore in cui il Presidente Biden si insediava alla Casa bianca, al Parlamento europeo si votava un emendamento del gruppo socialista di dura e ferma condanna all’assalto del Campidoglio da parte dei sostenitori di Trump e di “difesa della democrazia, dei diritti umani e dello Stato di diritto a livello globale.”

Un testo di una evidenza e una solarità che dovrebbe essere persino banale formulare in un consesso democratico, nel 2021.

E invece, che ci crediate o no, Lega (astenuta) e Fratelli d’Italia (addirittura contro) sono riusciti nell’impresa di non votarla, e quindi non condannare nemmeno questo scempio. 

Ma se la politica nazionale e internazionale appassionano poco, credo che non possiamo fare a meno di ragionare come il Matteo del Papete e il suo governatore lombardo hanno trattato la salute dei lombardi.

Da Formigoni in avanti, uno dei migliori apparati di sanità pubblica europea è stato sistematicamente demolito, a tutto vantaggio dei privati e durante questa pandemia ha mostrato tutti i suoi problemi:

– l’acquisto saltato di 4 milioni di mascherine dopo essersi rivolti a una ditta che non le produceva; 

– la delibera XI / 2906 con cui si stipavano persone positive al Covid nelle case di riposo per anziani; 

– l’Ospedale “Fiera” Milano progettato con 600 posti e realizzato con 53; 

– l’acquisto di spazi pubblicitari sui giornali per esaltare il modello sanitario regionale, nel momento in cui la sola Lombardia deteneva il 9,5% delle vittime mondiali e il 52% di quelle nazionali (28.224 vite salvate. Sanità privata insieme alla sanità pubblica);

– l’ex assessore Giulio Gallera che, dopo mesi e mesi di pandemia, era convinto che con un indice Rt pari a 0,5 ci volessero “due persone infette nello stesso momento per contagiarne una”; 

– l’ex assessore Giulio Gallera che, con una serie di scatti su Instagram, senza rendersene conto, rendeva noto di aver violato due regole del Dpcm (divieto di uscire dal Comune per fare sport e divieto di fare sport in gruppo); 

– una fornitura di camici affidata, senza alcuna gara, al cognato del Presidente Fontana;

– la Regione Lombardia che riteneva inutili i test sierologici ma che, in caso di risultato positivo degli stessi, chiedeva ai cittadini di pagarsi da soli i tamponi;

– i tamponi all’aeroporto di Malpensa avviati il 20 agosto, a estate ormai conclusa; 

– il tweet con cui la Regione Lombardia comunicava che per i turisti “è necessario effettuare il tampone solo se si fermano almeno per 4 giorni in Lombardia”;

– l’assenza, a dicembre inoltrato, dei vaccini antinfluenzali persino per i pazienti a rischio (over 65 con patologie pregresse);

– l’ex assessore Giulio Gallera che, nel commentare il terzultimo posto della Lombardia nella somministrazione delle dosi di vaccino anti-Covid, dichiarava che “è agghiacciante che alcune Regioni abbiano fatto la corsa al vaccino per dimostrare di essere più brave di chissà chi”.

– la nuova assessora Letizia Moratti che, per non far rimpiangere le gaffes del suo predecessore Gallera, propone di consegnare i vaccini anti-Covid tenendo conto del Pil dei territori.

Speravamo, appunto, di aver visto tutto. E invece, ciliegina sulla torta, adesso si scopre che la Regione Lombardia ha costretto alla zona rossa 10 milioni di persone per aver sommato, per errore, il numero dei guariti al numero dei positivi. 

Un ultimo dato: all’anagrafe calano i Matteo. Un dato che dovrebbe far riflettere i due Mattei nazionali.

Auguri, ne abbiamo proprio bisogno.

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Un Paese ostaggio di una classe politica arruffona e improvvisata.

Quasi scontato dire tanto rumore per nulla ma c’era davvero qualcuno che credeva alle minacce di Renzi e al suo sparuto numero di ministri? A parte il resoconto di qualche cronista politico e a fantasiosi retroscena – ormai l’unica forma autorevole del giornalismo italiano – nessuno ha mai creduto alla fine del governo Conte, neanche Renzi e il suo entourage. Quel giorno, se dovesse arrivare prematuramente rispetto alla naturale conclusione della legislatura, per molti parlamentari potrebbe rappresentare la conclusione della carriera parlamentare e allora, statene certi, abbaiare alla luna, per adesso, è l’unico lusso che si possono permettere.

Ma il Paese può permettersi questa classe politica?

Il racconto di come è andato l’incontro tra il presidente Conte e il drappello renziano sembra scritto da Age & Scarpelli, autori delle più esilaranti commedie italiane. Come in una scenetta di Totò e Peppino, a un certo punto del vertice, Conte ha sbottato: “Ma chi ha detto che volevamo fare un emendamento alla legge di Bilancio?”. E la Boschi risponde: “Voi, all’articolo 184 della legge di Bilancio”. Conte ribatte: impossibile. La Bellanova chiede: “Ma ci prendete in giro?”. A quel punto, anche Riccardo Fraccaro e Roberto Gualteri, rispettivamente sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e ministro dell’Economia e delle Finanze, avrebbero fatto notare la cosa a Conte.

“Ma Gualtieri l’ha letto il Recovery Plan? “, durante l’incontro, durato oltre due ore, con la delegazione di Italia Viva, è trapelato che neanche il ministro dell’Economia ha letto il piano nel dettaglio. 

Insomma, ci sarebbe da ridere a crepapelle se fosse che qui c’è in ballo il piano di aiuto economico più importante della storia repubblicana italiana. 

Intanto ogni giorno si apprende di un nuovo bonus, dopo bici, monopattini e vacanze, in queste ore si è aggiunto quello sull’arredamento e sui rubinetti dell’acqua – non è una battuta di spirito –. E poi ci lamentiamo perché in Europa ci guardano con sospetto quando si parla di aiuti economici e sforamento del patto di stabilità. 

Purtroppo, a voler cercare qualcosa di buono nell’opposizione, non c’è da stare tanto allegri. Salvini ha annunciato che passare il Natale con i clochard, la Meloni ha dato idea di come affronterebbe l’emergenza Covid e la necessità di far andare avanti l’economia: apertura dei centri commerciali per fascia di età. Insomma dalle 9 alle 10 i trentenni, dopo i quarantenni, nel pomeriggio i nonni.

Siamo un Paese fantasioso, pieno d’immaginazione, di splendide idee e una grande dose di fortuna e non ci resta che sperare sulla buona stella che tante altre volte ci ha salvato dalla sciagurata tendenza a farci del male da soli.

Chiaro come in una giornata d’agosto su un ghiacciaio

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Ci sono cose nella vita che uno non riesce a spiegarsi, altre, invece, sono chiare come in una giornata d’agosto su un ghiacciaio. “Papà, mi regali la moto?” È la domanda che molti genitori temono. Anche se entrambi, marito e moglie, un po’ per necessità un po’ per passione, tutti i giorni saltano in sella alla moto e allo scoter per andare in ufficio, la moto per i figli è qualcosa di destabilizzante. Speri sempre che questa richiesta non arrivi mai o il più tardi possibile, almeno quando hanno compiuto la maggior età e confidi di poterli distrarre dalle due con le quattro ruote. La prima volta l’ha chiesta non appena compiuto i quattordici anni, la sua compagnetta delle elementari aveva fatto da apripista. Prendiamo tempo. Spieghiamo che bisogna studiare e prendere la patente e, come da tradizione, né papà né mamma hanno fatto la patente in autoscuola, “se sei capace preparati e fai gli esami da esterna”.

Per il momento la cosa sembra rimandata. “Papà, si forse è meglio fare gli esami direttamente per il 125, nel frattempo comincio a esercitarmi con i quiz”. Bene, quindi respiriamo per un po’. “sai papà, preferisco attendere e prendere direttamente la patente per il 125 perché preferisco un 125 invece del cinquantino”. Non era quello che intendevo, ma va bene, qualche mese di respiro. Il giorno del sedicesimo compleanno arriva e, come solo una ragazzina di sedici anni sa essere, determinata e ruffiana, ecco pronti e scaricati dal web tutti i moduli e i bollettini da pagare per il rilascio del foglio rosa. Tra una lezione a distanza di italiano e matematica, un occhio al libro dei quiz: “papà cosa vuol dire questo segnale?” ma sei a scuola, devi seguire le lezioni, “si ma sta interrogando e io sono stata già interrogata, ho la media dell’otto”. Tento di allontanare il più possibile il giorno dell’esame, ma sono l’unico in famiglia e remare controcorrente alla fine ci si sfianca. Ok Marghe, fai pure la patente direttamente per il 125 ma comincerai con un cinquantino, non appena avrai dimestichezza passerai al 125, Ok? “Perfetto, papà, sì penso sia una buona idea anche perché voglio prima provare una moto da cross e poi vorrei una stradale?

Una moto da cross? Un tuffo al cuore, una fitta mi stringe lo stomaco. Marghe, io pensavo tipo una vespa o qualche altro scooter… qualcosa per una ragazzina “papà, a me non piacciono gli scooter, voglio una moto.” Non potevo rimproverarle nulla, era chiaro come in una giornata di agosto su un ghiacciaio, non potevo tentare di convincerla, sarebbe stato contro natura. E dimmi, hai qualche idea di che moto da cross vorresti? “Sì, non so come si chiama il modello ma ti faccio vedere le foto che ho scaricato da internet, queste sono proprio fighe, ti giro le foto su WhatsApp.” In rapida successione la clessidra scarica le foto sul mio cellulare, uno, due, tre, otto, dieci, dodici… Apro la prima. Un groppo alla gola mi toglie il fiato, il battito accelera, i timpani si trasformano in due sensibilissimi fonendoscopi, riesco a sentire ogni singolo battito. Scorro velocemente le foto, non so se sperare che si tratti di una scelta casuale o magari è una tra tante. No! Non ci sono dubbi, la scelta è chiara e trasparente, come in una giornata d’agosto su un ghiacciaio, mia figlia vuole la stessa moto che quarant’anni prima avevo sognato e guidato, in prestito da un amico: Caballero Fantic Motor 50cc Regolarità Casa. E adesso eccomi qua, come un ragazzino a cercare sul web come sistemare il carburatore, come cambiare la frizione, che gomme montare… come quarant’anni fa.

Natale in Libia

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Che fine hanno fatto i 18 pescatori di Mazzara del Vallo?

Natale in Libia non è il titolo del cinepanettone di quest’anno ma quello che potrebbe accadere ai pescatori sequestrati in Libia e ancora nelle celle del regime di Haftar. Se, paradossalmente, si potesse scegliere quando imbattersi in una disgrazia, i 18 pescatori siciliani, sequestrati dal generale Haftar, hanno scelto proprio il momento peggiore. Certo che non esiste il momento migliore per farsi sequestrare ma il destino a volte rende ancora più complicato quello che è già complicato in partenza. Da oltre tre mesi, 90 lunghi giorni e altrettante interminabili notti, le famiglie dei 18 marittimi di Mazara del Vallo attendono di poter riabbracciare i proprio cari, di riaverli a casa, di tornare alla normalità. Da giorni una tenda staziona davanti a Montecitorio, i famigliari di alcuni di loro, con la loro silenziosa presenza, ricordano al governo la loro tragedia e che andranno via solo quando potranno riabbracciare i loro uomini. 

La storia attorno al loro sequestro sta assumendo i contorni di una faccenda molto più ingarbugliata e non di facile lettura per un Paese ma, soprattutto, per un Governo distratto da problemi più pressanti ed evidentemente meno coinvolgenti di quelli che riguardano le famiglie di 18 lavoratori, sequestrati in acque internazionali assieme alle loro imbarcazioni. La pandemia, con i suoi DPCM, i litigi su come spendere il fiume di denaro del Recovey Fund, i problemi ideologici sul Mes, un ministro degli Esteri più intendo a gestire il doppio mandato e a fronteggiare i mal di pancia di un Movimento che si sta sciogliendo al pallido sole dell’Estate di San Martino, non lasciano ben sperare sui tempi del ritorno a casa dei 18 marinai.

Il generale Haftar

Per dirla tutta, neanche tra i banchi dell’opposizione pare esserci molta attenzione sulla sorte dei malcapitati pescatori di Mazara.

Giorgia Meloni, la più attiva quando c’è da denunciare inadempienze del governo o molto sollecita nel dispensare consigli su come bloccare gli sbarchi, con un massiccio blocco navale, in queste ore è molto occupata a denunciare l’uso improprio della scorta del premier che, colpevolmente, secondo l’opposizione, è intervenuta a proteggere la compagna del Presidente del Consiglio dall’insistenza degli inviati di Striscia. La Meloni, in un video direttamente dall’aula di Montecitorio, denuncia una questione di Stato di diritto. Per molto meno la scorta di Salvini impedì il lavoro di altri giornalisti durante le esibizioni al Papete dell’ex ministro degli Interni. Sul diritto di quelle 18 famiglie a riabbracciare i loro congiunti non una parola. Molto fredda anche la partecipazione dei social e delle Ong che in questi anni si sono mobilitati per i diritti degli immigrati. In fondo è lo stesso mare e lo stesso comune nemico. 

In queste ultime ore un evento, non collegato direttamente alla faccenda dei marinai trattenuti in Libia ma riconducibile ai delicati rapporti di forza e di potere nell’area, ci dà la misura di come il nostro Paese spesso soffra in politica estera un senso di minus habens. Ricordate il caso dei Marò e del disastro della nostra politica estera che ci coprì di ridicolo?

Tornando all’evento di queste ore, l’Egitto ha annunciato che non ci sono elementi sufficienti per continuare le indagini per individuare gli assassini di Giulio Reggeni e, pertanto, non collaborerà con la procura romana. Un bel ceffone per la nostra diplomazia. L’Egitto è uno dei fiancheggiatori dell’ex generale di Gheddafi, Khalifa Haftar, oltre a una altra mezza dozzina di paesi e, fra questi, pensate un po’, ci sono anche i francesi. I cugini d’oltralpe non hanno mai fatto mistero della voglia di scalzarci dalla Libia, i contratti dell’Eni sono nel mirino dei francesi da sempre, e la spallata al regime di Gheddafi non era certo un sostegno alla Primavera araba ma una veloce scorciatoia per mettere le mani sul petrolio libico.

La diplomazia italiana, da sempre e forse giustamente, ha preferito pagare per il rilascio dei suoi cittadini. In queste settimane i funzionari della Farnesina invitano alla cautela e al silenzio, per non compromettere le trattative. Chiedere il silenzio per non compromettere le trattative potrebbe avere senso quando ancora non si conosce l’identità dei rapitori, dove tengono i prigionieri e se sono ancora in vita. Ma qui conosciamo nomi, cognomi e indirizzo dei carcerieri e dove sono trattenuti i nostri connazionali, illegalmente, da un governo non riconosciuto da molte delle istituzioni internazionali. Dopo una prima richiesta dei libici, fatta circolare informalmente, circa uno scambio dei marinai siciliani con quattro scafisti libici, arrestati in Sicilia cinque anni fa, condannati a 30 anni ciascuno in primo e in secondo grado a Catania per la morte in mare di 49 migranti nel 2015, il generale Haftar deve essersi reso conto che un governo sovrano e legittimo non fa ostaggi da scambiare. Ecco allora il cambio di strategia, incriminare i pescatori per traffico di stupefacenti.

Petrolio, gamberi rossi e diplomazia è l’intrigata sceneggiatura che vede potagonisti una dozzina di paesi coinvolti in una grande partita di Risiko, dove si giocano spregiudicati assetti strategici ed economici di un enorme area che va dalla Tunisia alle coste di Grecia e Turchia, e gli interessi degli italiani sono in balia della sorte e di qualche oscuro consigliere diplomatico. 

Al generale Haftar la sorte dei 18 marinai della Medinea e della Antartide deve essergli sembrata un ottimo poker d’assi, senza mettere in conto che qualcuno potrebbe avere in mano una scala reale.

Haftar sa che una mossa sbagliata potrebbe procurargli le ire di Russia ed Egitto e che potrebbero scaricarlo da un momento all’altro, mentre la Francia potrebbe cercare di ingraziarsi i cugini italiani dopo anni di contrapposizione in Libia ma per il resto c’è il fondato rischio che i marinai di Mazzara del Vallo rischiano di passare il Natale forzatamente distanziati dalle loro famiglie al suono dei muezzin del generale Haftar.

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