In un mondo che impone modelli rigidi, è il gesto quotidiano di chi ci cresce con amore che definisce veramente la famiglia.
In un’epoca in cui slogan fuorvianti, falsi e privi di sostanza – come «Dio, Patria e famiglia» – sono la stella polare dell’attuale governo, il discorso sui simboli e sulla rappresentazione dei ruoli genitoriali diventa una questione non solo etica, ma soprattutto politica, nell’Italia frammentata dalle contrapposizioni.
Oggi si celebra la Festa della Mamma, un momento che ci ricorda che tutti abbiamo avuto almeno una madre, qualcuno addirittura più di una. Personalmente, e non per indulgere in una narrazione privata, ho perso la mia biologica quando avevo solo quattro anni. Nella Sicilia degli anni Sessanta, un vedovo con tre figli che si trovava di fronte all’impossibilità di conciliare lavoro e cura familiare, non aveva alternative.
Mio padre si risposò, un matrimonio combinato. Da un giorno all’altro, mi ritrovai con una nuova figura materna, che, per volontà dei miei fratelli maggiori, chiamammo «zia». Per loro, il termine «mamma» era inaccettabile: troppo grandi, 11 e 17 anni, per poter pensare di sostituire quella figura che era stata una presenza irrinunciabile.
Così sono stato cresciuto dalla mamma-zia, o forse dalla zia-mamma, un legame che sfidava ogni definizione convenzionale. Il suo amore nel crescermi fu genuino, quello di una donna che si ritrovò madre all’improvviso, a quarantadue anni, senza la preparazione dei manuali moderni o il supporto dei social che oggi ci invadono. All’epoca, i «social» erano i consigli delle comari, quelle donne della sua età che già avevano figli e che, tra una chiacchiera e l’altra, si scambiavano esperienze di vita.
Oggi celebriamo queste donne, quelle che, in un modo o nell’altro, ci hanno cresciuti, chi con maggiore successo, chi con difficoltà. Donne che ci hanno accudito nei momenti di bisogno e, se necessario, ci hanno dato qualche scappellotto, insegnandoci a stare al mondo. Nel mio caso, la mia seconda mamma non aveva alcuna esperienza precedente con i bambini, e forse nemmeno il desiderio esplicito di diventare madre. Ma quando il momento arrivò, non si tirò indietro. Mi ha dato tutto ciò che poteva, e più di quanto io avessi chiesto.
Questo per dire che il senso di maternità non è qualcosa che si può fissare per decreto, per legge, come vorrebbero alcuni oggi. La maternità non è una categoria che può essere imposta dall’alto, né un modello che può essere standardizzato. Eppure, oggi si pretende di farlo. La politica, a fasi alterne, pretende di governare anche i sentimenti dei cittadini, di modellare i nostri valori più intimi e, paradossalmente, impone modelli di vita che non sempre sono vissuti da chi li propugna. Principi che, spesso, sono solo parole, ma non azioni.
Tribunali e leggi, nel tentativo di proteggere i bambini, spesso si ritrovano a intrappolarli in una burocrazia che li tiene per anni lontani da qualsiasi forma di famiglia. Li lasciano in strutture di accoglienza, in case-famiglia, in orfanotrofi, senza offrire loro la possibilità di costruire legami duraturi e autentici. Questo sistema, per quanto animato dalle migliori intenzioni, rende quasi impossibile il percorso di adozione, e rende impraticabile ogni tentativo di riconciliazione tra questi bambini e una famiglia che potrebbe offrir loro amore, stabilità e il calore di una casa. La difficoltà di trovare un’accoglienza adeguata, che non sia solo un rifugio temporaneo, ma una vera opportunità di reinserimento, rischia di condannare molti bambini a un futuro incerto, privo della sicurezza emotiva che solo una famiglia può dare.
La politica, in nome della protezione dei minori, finisce per trasformare l’adozione in un percorso ad ostacoli, un cammino tortuoso dove la burocrazia prevale sulle necessità affettive e umane. Il risultato è che, troppo spesso, i bambini rimangono privi del calore di una madre, di una coppia, e il diritto fondamentale di crescere in una famiglia viene messo in secondo piano rispetto alla rigidità delle normative.
Il desiderio di maternità, che spinge a volte a ricorrere a mezzi estremi come l’utero in affitto, in Italia è stato trasformato in un reato universale. I promotori di questa iniziativa sostengono che sia stato fatto per evitare il mercimonio del corpo della donna, per proteggere la dignità femminile. Lo spirito, almeno nelle intenzioni, potrebbe anche sembrare giusto, ma dietro questa proposta si cela un obiettivo preciso: impedire a una minoranza, alle coppie gay, di poter avere figli. Un’intenzione politica che si fonda su una visione ristretta della famiglia e delle sue dinamiche, ignorando che l’amore materno – o l’amore di chi cresce un bambino – non ha confini né forme predefinite.
E qui torniamo al cuore del discorso: qual è l’amore più potente? Qual è quello più autentico? Quello di una madre biologica o quello di una persona che, per scelta o necessità, decide di accogliere un bambino come figlio, di crescerlo con amore disinteressato, indipendentemente da legami di sangue? In un mondo che continuamente ridefinisce i concetti di famiglia, affetto e genitorialità, la politica sembra voler imporre risposte univoche a questioni che, in realtà, sono infinitamente più complesse. La domanda che dovremmo porci non è tanto quale forma di maternità sia più legittima, ma quale sia l’amore che davvero conta: quello che permette a un bambino di crescere in un ambiente sano, pieno di affetto, o quello che si limita a imporre modelli ideologici senza tener conto delle necessità e dei sentimenti delle persone coinvolte?
E allora, forse è giunto il momento di celebrare non solo le nostre madri, ma soprattutto l’amore di chi ci cresce, di chi ci dona il suo affetto senza chiedere nulla in cambio, di chi, a volte contro ogni aspettativa, decide di diventare madre con il cuore e con l’anima. L’amore materno, in tutte le sue forme, è un atto di generosità che trascende i legami biologici, un gesto che si rinnova ogni giorno, in ogni piccolo sacrificio, in ogni gesto di cura e dedizione.
In un mondo dove le definizioni si mescolano e la politica tenta di tracciare confini rigidi su ciò che è giusto o legittimo, forse dovremmo ricordare che ciò che conta davvero non è l’etichetta che mettiamo sulle cose, ma la capacità di amare senza condizioni. Perché, alla fine, l’amore che cresce un bambino è l’unico vero legame che può rendere una famiglia, al di là di ogni legge, convenzione o dogma. Ecco cosa dovremmo celebrare: non solo un giorno, ma ogni giorno, la forza e l’autenticità di chi ci ha dato amore, insegnamenti e calore. In fondo, è l’amore che ci cresce che ci definisce davvero.