La questione morale e culturale: l’Italia tra declino e immobilismo

Dalla "questione morale" degli anni '80 al "declino culturale" contemporaneo: la politica italiana è intrappolata in un circolo vizioso di mediocrità, populismo e ignoranza.
12 Maggio 2025
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La “questione morale”: l’inizio di un’epoca di risanamento

Agli inizi degli anni ’80, la “questione morale” occupava il cuore del dibattito politico italiano. Era il momento in cui l’esigenza di purificare la politica e la società dalla corruzione e dall’immoralità divenne un tema centrale, con i partiti che si impegnavano a fare i conti con le proprie storture. L’Italia sembrava voler affrontare, finalmente, un processo di risanamento, un tentativo di rinnovare il sistema politico e sociale, riscoprendo i valori di integrità e onestà.

Poi arrivò la stagione di “Mani Pulite”, che avrebbe dovuto segnare la fine di quel marciume, ma che in realtà trasformò tutto. La lotta alla corruzione divenne un’arma politica, e il sistema venne spazzato via non solo da un’inchiesta giudiziaria, ma anche da un cambio di paradigma.

Il berlusconismo: la moralità come manipolazione del potere

Con l’arrivo del berlusconismo, infatti, le esigenze politiche mutarono radicalmente: la moralità, da questione fondamentale, divenne uno slogan usato per sostenere una battaglia di potere e per giustificare una nuova concezione della politica. Il Popolo della Libertà proponeva di liberarsi dalla corruzione ma soprattutto da lacci e lacciuoli che impedivano – secondo il nuovo pensiero – lo sviluppo libero del Paese.

La corruzione, in quel contesto, non venne mai affrontata in modo serio; al contrario, il sistema venne adattato a una nuova logica, dove l’illibatezza della politica divenne relativa, subordinata alla vittoria e alla gestione del potere.

In poco tempo, la “questione morale” venne ridotta a un vuoto esercizio di retorica, utile a giustificare ogni operazione politica, ma priva di una reale visione di cambiamento. Quella lotta contro la corruzione che negli anni ’80 sembrava essere il cardine di un rinnovamento, in breve divenne solo un ricordo lontano, svuotato di significato dalla pragmatica del berlusconismo e dalla trasversalità della sua politica.

La “questione culturale”: il cuore del declino italiano

Oggi, archiviata definitivamente la “questione morale”, siamo chiamati a fare i conti con un problema ben più profondo e duraturo: la “questione culturale”. 

Il berlusconismo, infatti, ha fatto irruzione nella politica italiana con una forza travolgente, sdoganando una destra impreparata, inadeguata, che ha trovato terreno fertile in un populismo che ha dato voce a una classe politica mediocre. Una classe che ha saputo rappresentare i più bassi istinti del popolo italiano, cavalcando paure, pregiudizi e risentimenti, ma senza mai proporre una visione solida e coerente del futuro. Oggi, a distanza di anni, la mancanza di una vera sensibilità culturale e la carenza di preparazione della nostra classe dirigente sono il motore di un declino che, anziché arrestarsi, sembra accelerare. Il nostro Paese è infatti traghettato verso un abisso economico, sociale e, soprattutto, culturale, dove il presente è dominato dall’assenza di idee e progetti.

Politicamente corretto: un freno al pensiero critico

In tutto ciò, il politicamente corretto, tanto caro alla sinistra, ha finito per alimentare un equivoco. Ha permesso di travisare concetti, di mascherare limiti e insufficienze, trasformandoli in peculiarità di parte, senza mai chiamare le cose con il proprio nome. Un linguaggio edulcorato che, anziché promuovere un vero dibattito, ha anestetizzato la capacità di pensare criticamente, spingendo tutti verso una zona di comfort intellettuale in cui è più facile fare finta che tutto vada bene. Eppure, forse è giunto il momento di dire davvero come stanno le cose: il nostro Paese sta perdendo, pezzo dopo pezzo, la capacità di pensare, di riflettere e di immaginare un futuro che non sia solo una ripetizione degli errori del passato. La questione culturale è oggi l’unico terreno su cui si gioca la nostra sopravvivenza come nazione, eppure troppo spesso sembra essere l’ultimo dei pensieri di chi ci governa.

La rivoluzione digitale: l’influenza di Internet e dei social media sulla politica

Internet e i social media hanno completato il quadro, amplificando quella che Umberto Eco definiva la “vox populi” dello “scemo del villaggio”, portando alla ribalta una nuova classe di politici impreparati, faziosi e, soprattutto, ignoranti. La politica, da questione seria e complessa, è diventata ormai una sorta di cabaret, in cui la demagogia e il qualunquismo regnano sovrani. Il celebre “uno vale uno” è stato il mantra che ha sancito il trionfo dell’ignoranza, dove l’importante non è avere gli strumenti per comprendere la realtà, ma sentirsi autorizzati a parlare di tutto, indipendentemente dalla preparazione. La presunzione ha preso il posto della competenza.

Siamo passati da un ministro che parlava di ispirazione Galileana, per la scoperta di Cristoforo Colombo, al ministro che annusa i libri. Verrebbe da chiedersi se oltre ad annusarli li legga anche, se va oltre la copertina, come nella surreale figuraccia del Ministro Sangiuliano, durante il premio letterario Strega, “Oltre la copertina, insomma”.

Internet e i social amplificano l’ignoranza, abbassando la qualità del dibattito e diffondendo superficialità

In questo scenario, ha preso piede un esercito di “esperti” autodidatti, professori, ingegneri, medici laureati all’Università della strada, che si sono sentiti in dovere di esprimere opinioni su qualsiasi argomento: medicina, vaccini, economia, storia. Senza un briciolo di pudore, questi personaggi disquisiscono di materie che richiederebbero anni di studio, scienza consolidata, dati e ricerche accuratamente condotte, ma il loro approccio è semplice e spietato. Non importa quanto complessa sia la materia, più essa risulti intricata, più questi “esperti” si sentono in grado di sfidare teorie, studi e verità acquisite. Basterebbe una rapida ricerca sul web per sentirsi in possesso della verità assoluta. È il trionfo della superficialità, che riscrive la realtà a suon di click e opinioni non informate, in un contesto dove l’apparenza di sapere è più importante della sostanza della conoscenza.

L’attuale classe politica ha costruito la sua fortuna proprio su questa deriva, alimentando il trionfo di una narrazione che ha fatto del populismo e della semplificazione il suo cavallo di battaglia. Una vittoria che, seppur sembra trionfante nell’immediato, rischia di trasformarsi presto in una vittoria di Pirro per il Paese. La realtà è che il gioco delle facili promesse e dell’appeal su un elettorato disorientato potrebbe rivelarsi un boomerang per l’Italia, destinato a pagare il prezzo di una leadership priva di visione, di competenza, di cultura.

È giunto il momento di dire basta con il politically correct, di smettere di nascondersi dietro parole e frasi convenzionali che non fanno altro che mascherare la verità. È ora di tornare a chiamare le cose con il proprio nome, di affrontare le sfide senza ipocrisie, senza quell’arte di aggiustare i discorsi per non urtare la sensibilità del pubblico. Perché, alla lunga, la storia presenta sempre il suo conto, e per un Paese che non è adeguato, che non è preparato, il prezzo potrebbe essere molto alto. Il prezzo di una politica che si rifugia nella mediocrità non rischia solo di essere un danno temporaneo, ma potrebbe rivelarsi un danno irreversibile, destinato a compromettere per decenni non solo la crescita e il benessere, ma anche la dignità di un’intera nazione.

E non si può nemmeno ignorare l’impatto sulle fondamenta culturali, che, nel lungo periodo, potrebbero ridursi a macerie, difficili da ricostruire.

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