Mentre Gaza affonda sotto le bombe e nell’indifferenza, una nuova frontiera del cinismo prende voce online: quella degli intellettuali da bar sport, degli storici da tastiera, dei libertari del Wi-Fi.
È sconvolgente vedere con quanta leggerezza si parli di Israele, di Gaza, di settant’anni di trattative fallite, promesse tradite, migliaia di morti. Conversazioni da bar, come se si commentasse l’ultima giornata di campionato. Come se fosse sport, intrattenimento.
A volte la rabbia monta, e mi verrebbe da dire: «Spero che tu possa vivere, anche solo per una settimana, la vita di un palestinese». Ma poi ti fermi. Perché il politicamente corretto non te lo consente. E allora lo pensi soltanto. Lo mastichi in silenzio.
Io a Gaza ci sono stato. E ci sono stato in un momento che, per gli standard locali, era considerato “tranquillo”. Quello che mi colpì, subito, fu l’apparente normalità: una città mediorientale come tante, con mercati, bambini, antenne satellitari e un traffico assurdo. Ma bastava fermarsi un attimo a pensare – o meglio, a ricordare – che da lì non si poteva uscire. Non senza un lasciapassare israeliano. E allora tutto cambiava.
Gaza era – ed è giusto dire “era“, perché oggi non è rimasto che un ammasso di macerie – un enorme carcere a cielo aperto. Due milioni di persone rinchiuse dentro un lembo di terra che non controllano, da cui non possono fuggire.
Chiamarla città, oggi, è un atto di nostalgia.
I leoni da tastiera – quelli che pontificano sul “diritto di esistere” di Israele, sull’autodifesa, e che, come Trump, pensano che «questa gente deve andarsene» – sono spesso gli stessi che ignorano la storia, i diritti umani, le basi minime di ciò che una democrazia dovrebbe rappresentare.
Parlano, anzi digitano, con l’arroganza di chi crede che il mondo sia un quiz a risposta secca, buoni da una parte, cattivi dall’altra. E intanto cancellano con un clic settant’anni di occupazione, umiliazione, apartheid.
Poi ti fermi, tenti almeno di capire: chi sono queste persone? Che faccia hanno? Qual è il loro orizzonte mentale? E scopri che molti sono gli intellettuali da bar sport, i geopolitici della domenica, gli storici improvvisati che scambiano Wikipedia per un dottorato e Facebook per una cattedra.
Pensano di avere il diritto di sputare le loro verità distorte solo perché c’è internet, solo perché oggi “tutti hanno diritto di parola”.
Ma non è questo che intendevamo quando parlavamo di libertà.
Umberto Eco li aveva già visti arrivare, li chiamava “gli scemi del villaggio”, solo che ora il villaggio è globale. E gli scemi hanno il Wi-Fi.
Hamas sacrifica i civili per restare al potere: n tutto il testo non compare mai – non una volta – la parola Hamas. Non un riferimento alla scelta deliberata di questo gruppo terroristico di lanciare razzi dai tetti delle scuole, di scavare tunnel sotto gli ospedali, di usare civili come scudi umani. Nessun accenno alla responsabilità concreta di chi, da anni, tiene in ostaggio il proprio stesso popolo per conservare il potere a suon di Kalashnikov e sharia. Ti dimentichi di aggiungere che in quei mercati la moneta vera non è il denaro, ma il controllo ideologico. Che in quelle strade i dissidenti spariscono, e le donne che osano troppo vengono ridotte al silenzio. Che la “normalità” era un’illusione sotto l’oppressione di Hamas, che ha trasformato Gaza in una base militare mascherata da civiltà urbana. Sono loro a preferire che i palestinesi muoiano, piuttosto che rilasciare gli ostaggi israeliani, deporre le armi o negoziare in buona fede. Nessuna parola su come, anche di fronte a proposte di cessate il fuoco, Hamas abbia spesso detto no, scegliendo il sangue per rafforzare la propria narrativa. L’indignazione verso Israele è legittima solo se accompagnata da un’altrettanta severa condanna verso Hamas. Parlare di “apartheid”, di “carcere a cielo aperto”, senza menzionare chi gestisce le chiavi interne di quella prigione, è un esercizio di propaganda più che di analisi.
Perché Hamas non depone le armi? Perché preferisce che la gente muoia? Perché nasconde armi tra i civili? queste sono le domande che devi farti.
Il dolore di Gaza è reale, la sofferenza dei civili è tragica. Ma ignorare che Hamas li tiene in ostaggio è un atto di complicità intellettuale. Le parole contano, e ogni omissione è una scelta. Se vogliamo davvero parlare di umanità, allora servono verità intere, non indignazioni a metà.
Appendere settant’anni di morti e di discriminazione dei palestinesi ai soli fatti del 7 ottobre – deprecabili – dimostra una mancanza di argomenti, di ragioni, di conoscenza della storia.