I veri nemici di Israele: bufale, cattiva informazione e zelanti disinformatori

“I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli”.

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Nel mare magnum del web è frequente imbattersi in bufale, disinformazione e cattivi maestri ma confidi sempre che chi legge sappia distinguere e comprendere se non smascherare le strampalate idee e le assurde ipotesi che propongono, perché tutto non diventi un bar sport.   

Tuttavia, questa fiducia nella capacità critica del pubblico viene spesso messa alla prova. I social media, che avrebbero dovuto democratizzare l’informazione, hanno invece amplificato le voci più stridenti, premiando la spettacolarità rispetto alla veridicità. Algoritmi progettati per massimizzare il coinvolgimento si trasformano in complici involontari di teorie del complotto, fake news e narrazioni costruite ad arte. Il risultato? Un “mare magnum” che più che informare, disorienta, lasciando spazio a polarizzazioni estreme e a discussioni superficiali.

Quello che dovrebbe essere un sano dibattito si trasforma spesso in una guerra di slogan, dove la competenza cede il passo alla presunzione e al pregiudizio. La complessità delle questioni viene ridotta a meme, a frasi ad effetto che conquistano cuori e like, ma che raramente portano a una comprensione più profonda. Il rischio, allora, non è solo che “tutto diventi un bar sport”, ma che il bar sport diventi il modello dominante del discorso pubblico.

E qui sorge una domanda cruciale: quanto è diffusa oggi la capacità di distinguere tra verità e menzogna, tra informazione e manipolazione? Certo, ci sono strumenti e iniziative per educare alla consapevolezza digitale, ma la loro portata sembra insufficiente di fronte all’ondata incessante di contenuti disinformativi. È come cercare di svuotare il mare con un secchio.

La responsabilità, però, non può ricadere interamente sul lettore. Piattaforme, giornalisti e istituzioni hanno un ruolo fondamentale nel creare un ecosistema dell’informazione più sano. Una maggiore trasparenza sugli algoritmi, un impegno concreto contro le fake news e una valorizzazione della qualità rispetto alla quantità sono passi necessari per uscire da questa spirale. 

Ma alla fine, tutto si riduce alla consapevolezza individuale: imparare a non accettare ogni cosa che leggiamo come verità assoluta, a verificare le fonti, a distinguere tra chi informa e chi manipola. Solo così possiamo sperare di navigare con lucidità nel mare magnum del web, trasformandolo da una giungla di parole a uno spazio realmente utile per la crescita collettiva.

I nemici di Israele.

Dopo questo lungo preambolo veniamo all’argomento di questo articolo: i veri nemici di Israele.

Qualche giorno dopo la strage del 7 ottobre del 2023, compiuta dai terroristi di Hamas, dove 1200 israeliani sono stati trucidati, tra di loro inermi donne e bambini, il web si è scatenato: ogni frequentatore del web aveva una teoria, una soluzione o una verità da presentare. Chi per lavoro legge e scrive, difronte a evidenti bufale o ciclopiche menzogne ha il dovere di reagire, di opporsi di cercare, quanto meno, di smascherare la mistificazione. 

Tra le pagine di Facebook di quelle ore comparve un post corredato da una foto storica: il Gran Mufti di Gerusalemme, Amin al-Husseini, ritratto nel 1941 accanto a Hitler. L’intento del post era chiaro: tracciare un filo diretto tra l’atavico odio degli arabi verso gli ebrei, il presunto progetto mai abbandonato di “cancellare” gli ebrei dalla Terra Santa da parte dei musulmani, e addirittura insinuare una responsabilità araba nell’Olocausto. 

Chiunque abbia una conoscenza minima della storia sa che quell’incontro tra al-Husseini e Hitler fu un episodio marginale, senza alcun peso reale sulle tragiche sorti dei milioni di ebrei sterminati nei campi da tedeschi e, in misura minore, da italiani. Eppure, il messaggio era volutamente strumentale: preparare il terreno ideologico per giustificare quanto il governo israeliano stava annunciando in quelle stesse ore—la completa devastazione di Gaza. 

Purtroppo, Netanyahu ha mantenuto la promessa, e oggi, a quasi cinquantamila morti, i commenti sotto quello stesso post offrono uno spaccato agghiacciante della retorica giustificativa. Si legge, per esempio: “L’Egitto riottenne il Sinai con gli accordi di pace, ma non volle Gaza. La Giordania chiese aiuto a Israele per l’acqua, ma non rivolle la Cisgiordania. I palestinesi (una geniale invenzione di Arafat) hanno rifiutato cinque proposte di pace e la possibilità di avere uno Stato”.

In sostanza, il sottotesto è chiaro: i palestinesi se la sono cercata. 

Questo tipo di narrazione, abilmente costruita, non solo distorce i fatti storici ma tenta di cancellare la complessità del conflitto e le responsabilità stratificate di entrambe le parti, riducendo tutto a un’unica conclusione manichea: la colpa, ancora una volta, è solo di chi subisce.

La cattiva coscienza di noi europei.

Senza bisogno di essere un fine storico o un ricercatore, appare evidente una contraddizione sorprendente: i discendenti di movimenti o forze politiche europee che, storicamente, hanno avuto un ruolo nelle persecuzioni contro gli ebrei, si ritrovano oggi tra i più accesi sostenitori delle politiche israeliane, in particolare quelle legate all’espansionismo territoriale e al progressivo restringimento dei diritti dei palestinesi. Questo paradosso è il risultato di una complessa evoluzione storica, politica e ideologica, che merita di essere analizzata per comprenderne le radici e le dinamiche.

Evoluzione ideologica e politica

Molte forze di estrema destra, in particolare in Europa e negli Stati Uniti, hanno ricalibrato la propria retorica nel dopoguerra, spostando la loro narrativa dall’antisemitismo tradizionale all’islamofobia. In questo contesto, Israele viene percepito come una “fortezza occidentale” in Medio Oriente, in lotta contro un nemico comune: il mondo arabo e musulmano. Questo ha portato alcuni di questi gruppi a diventare strenui sostenitori di Israele, non per un cambio autentico di valori, ma per opportunismo geopolitico e ideologico.

Espiazione storica

Alcuni paesi europei con un passato di collaborazionismo o complicità nell’Olocausto hanno adottato politiche di forte sostegno a Israele come forma di espiazione morale e storica per le colpe del passato. Questo vale anche per alcune forze politiche che cercano di “ripulire” la propria immagine storica e legittimarsi agli occhi dell’opinione pubblica.

Strumentalizzazione politica di Israele

Israele è diventato, soprattutto durante la Guerra Fredda, un alleato strategico degli Stati Uniti e, più in generale, dell’Occidente. Forze politiche conservatrici, anche con un passato oscuro legato al nazionalismo o all’antisemitismo, si sono gradualmente allineate con la politica filo-israeliana, strumentalizzando il sostegno a Israele per consolidare la propria posizione nelle dinamiche geopolitiche.

La retorica dello “scontro di civiltà”

Dopo l’11 settembre 2001, si è diffusa la narrativa dello “scontro di civiltà”, che contrappone l’Occidente al mondo islamico. In questo quadro, Israele è stato dipinto come un avamposto dell’Occidente democratico e liberale contro un presunto nemico comune rappresentato dai paesi arabi e musulmani. Questo ha portato molti movimenti di destra e di estrema destra, tradizionalmente antisemiti, a riformulare il proprio discorso in termini di opposizione ai musulmani e a vedere Israele come un alleato naturale.

Complessità del conflitto israelo-palestinese

Per alcune forze politiche, il sostegno a Israele è legato anche a una visione semplificata e parziale del conflitto israelo-palestinese, che presenta Israele come vittima perpetua di attacchi esterni. Questa narrativa, spesso alimentata dai media e dalla propaganda, tende a oscurare le dinamiche di oppressione dei palestinesi e rafforza il sostegno alle politiche israeliane.

In sintesi, il sostegno di certi movimenti e partiti alle politiche israeliane odierne non è frutto di un’autentica adesione ai valori del sionismo o di un sincero sostegno al popolo ebraico, ma piuttosto di dinamiche geopolitiche, ideologiche e strategiche che si sono trasformate nel corso del tempo. 

Rimane un’ironia storica che questi gruppi, eredi di ideologie che in passato perseguitarono gli ebrei, oggi si presentino come autentici difensori del popolo ebraico.

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