Un giovane bagnino si toglie la vita, sopraffatto dal rimorso per un incidente che avrebbe potuto evitare se non fosse stato costretto a gestire più compiti contemporaneamente, mentre in Italia certe tragedie sono figlie di politiche al risparmio, di lavoro precario, di turni di lavoro che sanno più di lavoro forzato che di dignitoso impiego.
Nel Belpaese, dove la ricerca di colpevoli sembra essere una pratica sempre sfuggente, una tragedia si trasforma in un’altra: la morte di un bambino provoca il suicidio di un bagnino che si sente ingiustamente responsabile, nonostante non abbia alcuna colpa. È una storia che sbatte in faccia l’impossibilità di accettare una semplice verità: non sempre c’è un colpevole, e, in ogni caso, non sempre la giustizia è in grado di fare i conti con il peso insopportabile del rimorso. Una storia che stride in questo panorama.
C’è una cultura in Italia che non lascia spazio per la responsabilità, per la verità. Una cultura che, invece di analizzare il contesto, si concentra sul capro espiatorio, sull’individuo che deve essere sacrificato per dare un volto alla tragedia. Così, mentre a trionfare sono i sovranismi, la legge sembra non valere mai per tutti, e l’ingiustizia diventa una norma. E in questo scenario, Matteo Formenti, un giovane bagnino, si trova a sopportare un peso insostenibile: il rimorso per una tragedia che non ha causato, ma che si è sentito obbligato a portare sulle spalle.
Matteo, 37 anni, in servizio in quel giorno d’estate, non ha potuto fare nulla per salvare Michael Consolandi, un bambino di soli 4 anni che è finito sott’acqua. Nonostante la lunghe manovre di rianimazione, la sua azione non è bastata. Eppure, in un Paese dove la responsabilità è spesso un concetto fluido, Matteo ha deciso di farsi carico di una colpa che non gli apparteneva. Si è sentito in colpa, tormentato, al punto da togliersi la vita, incapace di convivere con il suo senso di fallimento.
E mentre una singola persona si fa carico di un rimorso schiacciante, altri, ben più potenti, continuano a restare immuni alle tragedie più devastanti. Chi detiene il potere, chi ha le mani sporche di errori che travolgono milioni di vite, è raramente chiamato a rispondere. In un sistema dove la cultura del momento e degli “eletti” prevale, dove le leggi non sono mai uguali per tutti, il destino di Matteo risuona come un amaro monito. La sua morte solitaria è il simbolo di un’Italia che raramente affronta le vere responsabilità, preferendo additare chi non può difendersi, mentre chi comanda resta sempre protetto.